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Commenti alle notizie scientifiche della settimana.

De carbonizzare il mondo senza limitare la produzione di energia.

Ridurre fino ad eliminare completamente la produzione di gas serra è un dovere indiscutibile che avremmo dovuto onorare molto tempo fa. Siamo partiti tardi a preoccuparci del surriscaldamento globale ed il motivo è duplice: de carbonizzare la produzione costa parecchio e poi ancora oggi vi sono categorie di persone che negano tale necessità (per convenienza, per ignoranza, per protagonismo, ecc.)

Le alternative che abbiamo oggi sono le fonti rinnovabili pulite (sole, vento, mare) ma sono intermittenti e non sufficienti per garantire la crescita in un mondo che, nei prossimi trent’anni, arriverà a 10 miliardi di anime.

La soluzione del problema esiste e sta nello sfruttamento della energia nucleare attraverso il processo di fusione. Al contrario delle centrali a fissione, la fusione sfrutta un processo assolutamente pulito ed innocuo per l’ambiente.

Un obiettivo difficile ma che garantirà energia pulita per tutti in quantità e rivoluzionerà positivamente il modo di produrre, viaggiare, vivere.

Per chi vuole approfondire questo argomento consiglio questo filmato https://youtu.be/85LNFER9MhQ dove, in 15 minuti, cerco di esaminare tutti gli aspetti della produzione di energia elettrica pulita nell’immediato futuro.

Il grosso, grossissimo problema tecnico nello sviluppo di reattori nucleari a fusione controllata sta nella necessità di mantenere “confinato”, cioè lontano dalle pareti del contenitore, il gas ionizzato. Un gas che per poter fondere i suoi atomi in uno altro elemento deve raggiungere temperature di decine di milioni di gradi. Parliamo di deuterio e trizio che fondendo si trasformano in elio di massa minore della somma dei due atomi di partenza, con un rilascio enorme di energia.

Sono in fase di sperimentazione diverse tecniche che vanno dal confinamento inerziale a quello magnetico. Ed è di quest’ultimo di cui vi voglio parlare oggi, perché vi sono delle novità.

La notizia di oggi infatti arriva da Cambridge, Mass. Dalla Commonwealth Fusion Systems (CFS) e Plasma Science and Fusion Center (PSFC) del MIT

La CFS ha annunciato il successo del test del magnete superconduttore ad alta temperatura (HTS) più potente al mondo, la tecnologia chiave per un dispositivo che sbloccherà la strada per l’energia da fusione commerciale pulita.

Fotografia di un HTS.

Il test fondamentale, condotto presso il Plasma Science and Fusion Center del MIT, ha dimostrato che il magnete costruito su larga scala può raggiungere un campo magnetico sostenuto di oltre 20 tesla, sufficiente per consentire al dispositivo tokamak compatto di CFS, chiamato SPARC (un prototipo del tutto simile a ITER, quello che si sta sviluppando con un consorzio internazionale in Francia a Cadarache, vicino a Marsiglia), di ottenere energia netta dalla fusione (cioè il punto di parità dalla fusione dove l’energia immessa è uguale o minore di quella resa dal processo) . Un vero primato!

Spaccato dello SPARC.

Bob Mumgaard, CEO di CFS, ha affermato:  “Questo magnete da record è il culmine degli ultimi tre anni di lavoro e offrirà al mondo un chiaro percorso verso l’energia da fusione per la prima volta. Il mondo ha bisogno di una tecnologia fondamentalmente nuova che supporterà gli sforzi per decarbonizzare in una sequenza temporale che possa mitigare i cambiamenti climatici. Questo test del nostro magnete dimostra che abbiamo quella tecnologia e siamo sulla buona strada per produrre energia pulita e illimitata per il mondo intero”.

CFS e PSFC del MIT hanno utilizzato nuovi superconduttori ad alta temperatura (HTS) disponibili in commercio per costruire i magneti che consentiranno campi magnetici significativamente più forti in un dispositivo di fusione chiamato tokamak. 

Con il superconduttore a 20 gradi Kelvin e con 40.000 Ampere si raggiungono i 20 Tesla di campo magnetico.

I tokamak esistenti si affidano a dispositivi molto più voluminosi per tentare di confinare il plasma supercaldo, i magneti HTS consentono invece un approccio ad alto campo che consentirà a CFS di raggiungere il punto di parità dalla fusione con un dispositivo sostanzialmente più piccolo, a basso costo e con tempistiche più rapide.

Dennis Whyte, direttore del PSFC del MIT e co-fondatore di CFS ha affermato: “Questo rivoluzionario magnete apre un’opportunità di trasformazione e accelera ampiamente il processo per arrivare all’energia di fusione per la produzione commerciale di energia elettrica”.

I tokamak sono dispositivi a forma di ciambella che utilizzano magneti per controllare e isolare un plasma in cui avviene la fusione. Sebbene nessun dispositivo di fusione debba ancora ottenere energia netta, i tokamak si sono avvicinati di più con più di 160 tokamak costruiti e gestiti con successo in tutto il mondo. In passato, i tokamak utilizzavano magneti superconduttori a bassa temperatura che richiedevano fossero di dimensioni enormi per creare il campo magnetico necessario per tentare di ottenere l’energia netta. I magneti CFS HTS consentiranno campi magnetici significativamente più forti e, di conseguenza, tokamak significativamente più piccoli. Le centrali elettriche a fusione avranno vantaggi rispetto alle centrali elettriche tradizionali a fissione, in quanto saranno prive di carbonio, trasportabili, avranno una fornitura di carburante illimitata e sono intrinsecamente più sicure di altri tipi di impianti.  Si possono spegnere e riaccendere, non producono scorie radioattive, non possono scoppiare e non producono materiale adatto a bombe sporche. Il combustibile non è radioattivo.

Questa tecnologia del magnete HTS verrà successivamente utilizzata in SPARC, che è in costruzione a Devens, nel Massachusetts, e sulla buona strada per dimostrare l’energia netta dalla fusione entro il 2025. SPARC aprirà la strada alla prima centrale elettrica a fusione commercialmente valida chiamata ARC. 

A proposito di CFS

CFS è sulla buona strada per portare sul mercato la tecnologia dell’energia da fusione. CFS è stato creato dal MIT e combina i decenni di esperienza di ricerca del Plasma Science and Fusion Center del MIT con l’innovazione e la velocità del settore privato. Supportato dai principali investitori mondiali in tecnologie energetiche innovative, CFS è in una posizione unica per fornire il percorso più veloce verso l’energia da fusione commerciale. Per ulteriori informazioni sulla CFS, visitare www.cfs.energy .

Commentato da Luigi Borghi.

Link correlati:

https://cfs.energy/news-and-media/cfs-commercial-fusion-power-with-hts-magnet

Rilascio del MIT:  https://news.mit.edu/2021/MIT-CFS-major-advance-toward-fusion-energy-0908

Ormai ci siamo, venerdì 30 luglio anche la Boeing attraccherà alla ISS.

Il programma Commercial Crew della NASA, voluto da Obama all’inizio del suo primo mandato, sta raggiungendo il suo obiettivo di un trasporto sicuro, affidabile ed economico da e per la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) dal territorio USA e con mezzi americani attraverso una partnership con l’industria privata americana. C’è voluto tempo, rinvii e problemi ma ora ci siamo.

Questa partnership sta cambiando la storia del volo spaziale umano aprendo l’accesso all’orbita terrestre bassa e alla Stazione Spaziale Internazionale a più persone, più scienza e più opportunità commerciali. La ISS, insieme all’imminente Gateway rimangono e saranno il trampolino di lancio per il prossimo grande salto della NASA (e non solo) nell’esplorazione dello spazio, comprese le future missioni sulla Luna e, infine, su Marte.

Vi propongo un approfondimento di questa missione che ho rilevato da Space Daily.

La NASA e Boeing stanno compiendo un altro importante passo avanti verso i lanci regolari di voli spaziali umani verso la Stazione Spaziale Internazionale su razzi, veicoli e territorio americani con l’imminente secondo test di volo senza equipaggio del Boeing CST-100 Starliner (in figura montato sul razzo AtlasV) come parte del programma commerciale dell’agenzia dell’equipaggio.

Il Boeing Orbital Flight Test-2 (OFT-2) della NASA punta al lancio della navicella spaziale Starliner su un razzo Atlas V della United Launch Alliance alle 14:53 EDT di venerdì 30 luglio, dallo Space Launch Complex-41 sulla stazione della forza spaziale di Cape Canaveral in Florida

Starliner dovrebbe arrivare alla stazione spaziale per l’attracco circa 24 ore dopo con oltre 400 libbre di carico della NASA e rifornimenti per l’equipaggio.

La missione metterà alla prova le capacità end-to-end di Starliner dal lancio all’attracco, al rientro atmosferico e all’atterraggio nel deserto negli Stati Uniti occidentali. OFT-2 fornirà dati preziosi che aiuteranno la NASA a certificare il sistema di trasporto dell’equipaggio di Boeing per trasportare gli astronauti da e verso la stazione spaziale.

Sebbene nessun equipaggio sarà a bordo del veicolo spaziale per OFT-2, il posto del comandante dello Starliner sarà occupato da Rosie the Rocketeer, il dispositivo di test antropometrico del Boeing. (nell’immagine sotto).

Durante OFT-1, Rosie è stata dotata di 15 sensori per raccogliere dati su ciò che gli astronauti sperimenteranno durante i voli su Starliner. 

Per OFT-2, le porte di acquisizione dati dei veicoli spaziali precedentemente collegate ai 15 sensori di Rosie verranno utilizzate per raccogliere dati dai sensori posizionati lungo il pallet del sedile, che è l’infrastruttura che mantiene tutti i sedili dell’equipaggio in posizione.

Durante l’avvicinamento di Starliner alla stazione spaziale, la NASA e Boeing verificheranno i collegamenti dati e le capacità di comando da parte dell’equipaggio della stazione, inclusa una sospensione comandata durante l’avvicinamento da parte dell’astronauta della Japan Aerospace Exploration Agency e del comandante della stazione Aki Hoshide. 

Starliner testerà anche una capacità di ritirata automatizzata durante l’avvicinamento nel caso in cui si verificasse un problema sull’asse di attracco.

Starliner testerà anche il suo sistema di navigazione basato sulla visione per attraccare autonomamente alla stazione spaziale. L’attracco è previsto per le 15:06 di sabato 31 luglio o circa 24 ore dopo il lancio.

Dopo un attracco riuscito, Starliner trascorrerà dai cinque ai dieci giorni a bordo del laboratorio orbitante prima di tornare sulla Terra negli Stati Uniti occidentali (vedi immagine sotto). 

Il veicolo spaziale tornerà con più di 550 libbre di carico, compresi i serbatoi riutilizzabili del sistema di ricarica dell’azoto (NORS) che forniscono aria respirabile ai membri dell’equipaggio della stazione.

OFT-2 è il secondo volo orbitale per il CST-100 Starliner e il primo per il secondo modulo equipaggio della flotta Starliner. Boeing sta effettuando questo secondo test orbitale per dimostrare che il sistema Starliner soddisfa i requisiti della NASA, incluso l’attracco alla stazione spaziale.

OFT-2 si baserà sugli obiettivi della missione raggiunti durante il test di volo di Starliner, inclusa la verifica:

  • Funzionamento in orbita dell’avionica, del sistema di attracco, dei sistemi di comunicazione e telemetria, dei sistemi di controllo ambientale, dei pannelli solari e dei sistemi di alimentazione elettrica e dei sistemi di propulsione;
  • Prestazioni dei sistemi di guida, navigazione e controllo dello Starliner e dell’Atlas V in salita, in orbita e in entrata;
  • Livelli acustici e di vibrazione e carichi attraverso l’esterno e l’interno dello Starliner
  • Avvia monitoraggio trigger di fuga
  • Prestazioni delle operazioni di missione end-to-end del sistema Starliner

La missione OFT-2 testerà anche le modifiche e i miglioramenti apportati a Starliner e dimostrerà che il sistema è pronto per far volare gli astronauti.

In preparazione per OFT-2, la NASA e Boeing hanno completato tutte le azioni raccomandate dal team di revisione indipendente NASA-Boeing, formato a seguito del primo volo di prova di Starliner nel dicembre 2019. Le raccomandazioni del team di revisione includevano elementi relativi ai test integrati e simulazione, processi e operazioni, software, sistema di comunicazione del modulo equipaggio e organizzazione. Boeing ha implementato tutte le raccomandazioni, comprese quelle non obbligatorie, prima del prossimo volo di Starliner.

Dopo che questa missione senza equipaggio di Starliner raggiungerà tutti gli obiettivi necessari, la NASA e Boeing cercheranno opportunità verso la fine di quest’anno per far volare la prima missione con equipaggio di Starliner alla stazione spaziale, il Crew Flight Test (CFT), con gli astronauti della NASA Barry “Butch “Wilmore, Nicole Mann e Mike Fincke a bordo.

Commentato da Luigi Borghi.

Link correlati:

https://www.spacedaily.com/reports/What_you_need_to_know_about_Starliners_Test_2_999.html

Rifiuti spaziali: ad oggi poche iniziative, ma qualche cosa si muove, forse troppo tardi!

Da quand’è che pariamo di “space debries”? Forse da oltre mezzo secolo! Da quando i satelliti artificiali sono diventati uno strumento di lavoro, di intelligence, di comunicazione e di guerra. Lo spazio intorno alla Terra è diventato “spazio di tutti e di nessuno” ma con implicazioni sicuramente su tutti! Un piccolissimo pezzo di materiale solido, anche di pochi millimetri quadrati, può fare danni enormi con conseguenze micidiali sulle attività dell’uomo nello spazio. Lo sapevamo da oltre mezzo secolo ma la cooperazione internazionale (si fa per dire) aveva altri problemi da affrontare. Forse più gravi (come il surriscaldamento globale, la fame e la povertà nel mondo) o forse anche no, tant’è che ora abbiamo milioni di piccoli proiettili vaganti incontrollati ed invisibili che prima o poi faranno dei danni, di questo ne siamo certi tutti.

Bisogna ammettere che correre ai ripari dopo che si sono messi in circolazione questi proiettili è una lotta titanica persa in partenza, ma ciò che potrebbe, se non altro, evitare di peggiorare la situazione e cercare di prevenire! Obbligare chi ha la possibilità di accesso allo spazio, pubblico o privato, ad osservare comportamenti, procedure e leggi che garantiscano la non proliferazione di space debries.

A questo proposito, per potervi allineare su come si sta muovendo il mondo dei “lanciatori”, vi propongo e vi commento questi due articoli che esaminano la situazione.

Partiamo con un articolo di Gianmarco Vespia su astronautinews da me commentato che analizza i mezzi che portano in orbita i satelliti quindi anche i potenziali detriti: i razzi!

Dove finiscono i razzi al termine della missione?

Sopra la carcassa di un Sojuz. Credit: Roskosmos, caduto nella steppa e sotto il booster dal razzo cinese Chang Zheng 3 B / G3 (lanciato il 2 Giugno 2021) rientrato a terra su strada dopo il lancio.

Ci sono decine di migliaia di satelliti attivi in orbita terrestre: scientifici, militari, commerciali, delle telecomunicazioni… Svolgono il loro servizio per un periodo di tempo prolungato, a volte anche di parecchi anni. Per arrivare lì dove sono è necessario un mezzo di trasporto esageratamente grande rispetto al satellite: un razzo vettore che svolge il suo lavoro solamente per pochi minuti, per riuscire a dare al carico quota e velocità desiderate per inserirsi nell’orbita finale. Il lanciatore, solitamente, poi non ha più altri compiti da svolgere e viene abbandonato o per fortuna anche recuperato, come ha dimostrato la SpaceX.

Il destino del razzo ormai inutile dipende sostanzialmente dalla tecnologia e dal profilo di missione per cui è stato impiegato. Prima di scendere nei particolari, è doveroso notare che tutti i razzi vettori, nessuno escluso, sono composti di varie parti che vengono espulse via via che il lanciatore si avvicina al traguardo della sua missione: booster laterali, stadi, interstadi, ogiva, eventuali coperture termiche, adattatori e altri componenti di minore importanza.

Negli ultimi anni si sta diffondendo la pratica di tentare il recupero e riciclo di alcune componenti, ma è ancora una prassi in esercizio o in fase di studio solo per poche aziende. Il primo programma di riuso di componenti di un lanciatore risale addirittura alla fine dell’era spaziale delle missioni Apollo, quando iniziò lo sviluppo dello Space Shuttle, che inizialmente doveva essere completamente riutilizzabile ma poi, date le grosse difficoltà tecnologiche da affrontare, vide realizzato il recupero e il ricondizionamento del solo orbiter e raramente dei booster laterali. Sebbene in un primo momento possa sembrare un’ovvia evoluzione economica dello sviluppo astronautico, i costi necessari alla filiera di riciclo superavano di gran lunga i benefici, e i progressi sul rientro controllato dei lanciatori andarono in pausa per lungo tempo fino ad arrivare allo scorso decennio, quando SpaceX per la prima volta riuscì a effettuare l’atterraggio morbido di un primo stadio di un Falcon 9.

Il primo atterraggio di un Falcon 9 su una piattaforma a terra

Ormai l’azienda di Elon Musk ci ha abituato agli atterraggi controllati dei primi stadi dei suoi lanciatori Falcon 9, ma anche altri attori stanno studiando come riuscire a recuperare parte del prezioso hardware utilizzato per mandare satelliti in orbita, con tecniche più o meno simili.

Rocket Lab, ad esempio, prevede di recuperare al volo il primo stadio del suo Electron, con un elicottero che dovrebbe agganciarlo dopo un rientro controllato con l’apertura di un paracadute. ULA progetta di staccare solo il comparto motori dal primo stadio del suo nuovo razzo Vulcan, la parte più costosa, per tentarne il recupero.

Anche alcune agenzie spaziali spingono per avere nella loro flotta qualche esemplare adatto al recupero, come CNSA con il suo Lunga Marcia 8 o Roskosmos con il progetto del nuovo razzo Amur.

Si tratta comunque di una fetta ridotta del complesso delle attività spaziali. La verità è che al momento la maggior parte dei vettori dopo il loro utilizzo vengono semplicemente abbandonati, e si schiantano da qualche parte sulla Terra. Ad oggi non si sono mai registrati danni a persone derivanti da eventi di questo tipo. Per vedere come si affronta il problema dell’abbandono dei razzi, nelle sue varie componenti, bisogna fare una distinzione tra le parti che raggiungono la velocità orbitale e quelle che vengono espulse prima.

 

Il caso suborbitale.

Solitamente i primi stadi, i booster laterali e l’ogiva dei razzi soddisfano il compito per cui sono stati progettati entro pochi minuti dal lancio, e non raggiungono quasi mai la velocità orbitale. Il rientro in questo caso è di tipo distruttivo (cioè provoca la perdita del componente stesso), avviene a velocità di caduta e viene programmato accuratamente in modo da avere luogo lontano da porzioni di territorio densamente abitate. Non è un incidente.

È tutto previsto già in partenza: tutto nominale, come si dice nel gergo astronautico.

Per gli operatori che hanno la possibilità di effettuare un lancio da una base situata sulla costa est di un territorio, il gioco si fa molto più semplice, perché si riesce facilmente a programmare un rientro in mare, lontano da zone abitate e segnalato con grande anticipo alle imbarcazioni (tramite un avviso chiamato NOTMAR – Notice to Mariners) in modo che non entrino all’interno dell’area di ricaduta dei detriti.

In rosso le zone NOTAM per il volo Ariane 5 VA241. Credit Image: Spaceflight101/Google Earth.

È il caso dei lanci che avvengono da Cape Canaveral, Wallops, Kourou, Wenchang o Mahia, ad esempio. In questi casi viene emesso anche un NOTAM (NOtice To AirMen) che delimita le zone di pericolo per rientro incontrollato. Le zone in un NOTAM possono essere più di una, e sono a forma di rettangoli allungati nella direzione di marcia, tanto più larghi quanto è la distanza dalla zona di lancio.

Il piano volo di un Ariane 5, ad esempio, con dei satelliti da portare in orbita geostazionaria, prevede un lancio dalla base di Kourou, nella Guyana francese, col distacco dei due booster laterali e dell’ogiva tra due e tre minuti dopo il lancio, e la separazione del primo stadio circa nove minuti dopo. Booster e ogiva cadranno in mare al largo delle coste sudamericane in acque internazionali, mentre il primo stadio rientrerà più vicino al continente africano, sempre in mare, in una zona imprecisata molto più estesa della precedente.

Quando un lanciatore parte dall’entroterra, la questione si complica un po’ di più, perché i booster o il primo stadio vanno separati dal resto del razzo quando ancora non si sorvola il mare, per cui dovranno precipitare per forza di cose al suolo. Queste costrizioni possono avere un impatto notevole sulle attività spaziali. La Stazione Spaziale Internazionale ruota attorno alla Terra in un’orbita inclinata di 51,6°.

Tale orbita venne scelta proprio per permettere i lanci delle capsule russe dal cosmodromo di Bajkonur, in Kazakistan. La base di lancio fu costruita in territorio Kazako quando i due stati facevano entrambi parte dell’Unione Sovietica, e oggi russi la utilizzano grazie a uno speciale accordo.

Se la ISS si trovasse su un’orbita meno inclinata (e quindi più favorevole ai lanci dagli USA), il razzo Sojuz usato per trasportare sulla ISS carichi ed equipaggi dovrebbe forzatamente essere lanciato su una traiettoria che lo porterebbe a sorvolare il territorio cinese, dove precipiterebbe una volta esaurito il propellente. Per evitare problemi diplomatici, per la ISS fu scelta un’inclinazione dell’orbita tale da portare lo stadio centrale del Sojuz a cadere in territorio russo, nei pressi dell’altopiano dell’Altai, dove ormai i cittadini del luogo (si tratta di una regione vicino alla Siberia a bassissima densità di popolazione) sono abituati a convivere con eventi simili, tanto che ci hanno costruito attorno una microeconomia. I locali infatti trovano, raccolgono e riciclano questi detriti. I serbatoi e altre parti in metallo vengono utilizzati per costruire attrezzature per l’agricoltura, oppure vengono rivenduti. Non sono rare anche azioni legali per il disagio arrecato, anche se Roskosmos risarcisce solo i danni materiali. Il lanciatore Sojuz utilizza ossigeno liquido e cherosene speciale per razzi, che non sono tossici per l’ambiente.

Contadini dell’Altai recuperano metallo utile da una carcassa di razzo circondati da migliaia di farfalle. Foto Flickr di Jonas Bendiksen.

La situazione si fa ancora più delicata quando il lancio da uno spazioporto dell’entroterra viene eseguito con un lanciatore alimentato a combustibili tossici, come è il caso del russo Proton o dei lanciatori cinesi Lunga Marcia CZ-2, CZ-3 e CZ-4, in tutte le loro varianti.

In questi casi c’è poco da fare: il rientro sul territorio del primo stadio porterà al suolo residui di carburante nocivo. In particolare, queste 4 famiglie di razzi usano come carburante dimetilidrazina asimmetrica e come ossidante tetrossido di diazoto, che sono un retaggio di sviluppi in campo astronautico ormai tecnologicamente superati.

Sia l’agenzia spaziale russa che quella cinese programmano di eliminare questi lanciatori dalla loro flotta di razzi attivi, sostituendoli con i più moderni Amur, ancora in fase di sviluppo, e con i CZ-6, CZ-7 e CZ-8, già in attività da qualche anno.

La transizione purtroppo sarà lenta e richiederà ancora parecchi anni.

 

Il caso orbitale.

Tutto quanto spiegato precedentemente non si applica agli stadi che raggiungono la velocità orbitale, pari a circa 7,9 chilometri al secondo (naturalmente per orbite terrestri). La vita di uno stadio in questo caso non si limita più ai pochi minuti di caduta balistica. Lo stadio in questi casi potrebbe rimanere in orbita giorni, mesi, anni, o addirittura rimanerci per sempre. In caso di rientro, zona di ricaduta e velocità sono molto più grandi di un rientro suborbitale.

In molti casi, fino a poche ore prima del rientro non si riesce a individuare con precisione la zona di potenziale impatto dei detriti, soprattutto quando si tratta di uno stadio in orbita bassa (tra i 160 e i 1.000 km di quota). Sebbene la latitudine del punto di impatto si possa limitare con l’inclinazione orbitale, la longitudine può assumere un valore qualunque, spaziando da est a ovest per tutto il globo. D’altro canto, una velocità così elevata è il fattore che consente allo stadio in rientro di frantumarsi, bruciando e vaporizzando la maggior parte della propria massa e lasciando eventualmente arrivare in superficie solo le componenti di densità elevata.

Alcuni costruttori hanno aggiunto ai loro ultimi stadi la possibilità di eseguire un’accensione finale, dopo che hanno rilasciato il carico utile, impartendo la spinta necessaria a controllare la caduta e a “mirare” una zona della Terra lontano da insediamenti abitati, tipicamente nell’oceano Pacifico.

Con la sua estensione questo oceano garantisce un’ampia scelta di zone per rientri sicuri.

Tuttavia, questa capacità non è prerogativa di tutti, e non sempre è precisa o funzionante ma si tratta comunque di un importante passo nella direzione della sostenibilità, per mantenere l’orbita terrestre pulita ed evitare rientri che potrebbero allertare i sistemi di sicurezza di molte nazioni del mondo. Per poter compiere manovre di rientro controllato, lo stadio finale deve essere studiato sin dalla fase di progettazione per integrare tale capacità. Come minimo deve essere in grado, infatti, di ruotare per girarsi nel verso opposto a quello di marcia, e naturalmente di riaccendere i motori.

A titolo di esempio, il secondo stadio dell’Ariane 5 nella sua prima versione (Ariane 5 G, 1996) non aveva la possibilità di riaccendere i motori, dato che non era una funzionalità richiesta per far fronte ai requisiti commerciali del progetto. La variante in esercizio tutt’ora (variante ES, 2008), più potente della precedente, possiede invece questa capacità, ed è stata usata per le missioni ATV verso la ISS per far rientrare nell’oceano il grosso stadio centrale del lanciatore europeo, dopo l’inserimento del carico in orbita. Anche il secondo stadio del Falcon 9 è dotato della possibilità di riaccendere i motori al termine della missione, e dal 2014 effettua regolarmente, per le missioni in orbita bassa, una manovra finale per evitare di diventare un detrito spaziale.

Qualche volta può accadere che ci sia un problema e l’accensione finale non avvenga. Questo non compromette la missione principale, ma può portare al rientro incontrollato dello stadio che si trasforma in un inaspettato spettacolo pirotecnico, come avvenuto di recente per la missione Starlink 17.

In caso lo stadio finale del razzo non disponga di questa possibilità, questo rimarrà nello spazio per molto tempo, costituendo un rischio per le altre attività spaziali. Si tratta comunque di un rischio ormai ben studiato, calcolato e monitorato dalle istituzioni a cui è assegnato il compito di tenere sotto controllo i detriti spaziali, come il recentemente istituito 18º squadrone della Space Force statunitense, o l’EUSST, European Union Space Surveillance and Tracking.

Gli stadi apparentemente inattivi in orbita possono essere molto pericolosi soprattutto per il rischio di esplosioni improvvise, che peggiorerebbero enormemente la situazione generando migliaia di altri detriti da un singolo oggetto.

Questi eventi sono dovuti all’energia residua che possiedono gli ultimi stadi, fondamentalmente a causa di propellente rimasto o batterie ancora leggermente cariche, che in qualche modo viene sollecitata col tempo nelle condizioni avverse dell’ambiente spaziale.

Da una decina d’anni alcune agenzie spaziali e produttori hanno adottato unilateralmente alcune pratiche per la mitigazione di questi rischi, sebbene non esistano accordi internazionali multilaterali che impongano restrizioni sull’uso dei lanciatori.

In particolare, una pratica ormai adottata universalmente è la passivazione del razzo.

Con questo termine si indicano le varie misure atte a eliminare il più possibile le cause che potrebbero portare in futuro il mezzo abbandonato all’esplosione, come l’espulsione del carburante residuo, lo scaricamento delle batterie e altre eventuali piccole procedure. Un’altra prassi abbastanza comune è cercare di portare l’ultimo stadio del razzo in un’orbita in cui il decadimento dello stesso avverrà naturalmente (per effetti di meccanica orbitale) entro 25 anni dal lancio, o eventualmente, nel caso di missioni verso l’orbita geostazionaria (GEO), di spostarlo in una cosiddetta “orbita cimitero”, a circa 250 km al di sopra dell’orbita GEO, dove non darà più alcun fastidio ad altre operazioni spaziali.

Le statistiche aggiornate ad aprile 2021 mostrano effettivamente numeri che richiedono attenzione. Ci sono circa 8.800 oggetti nello spazio riconducibili a lanciatori, che siano stadi, detriti o frammenti di essi, di cui circa 1.000 sono effettivamente stadi (rocket body) in orbita bassa o in un’orbita eccentrica con perigeo basso (LMO). Prima o poi questi oggetti rientreranno a Terra, liberando l’orbita che occupavano da pericoli. Il rientro avverrà per tutti in una zona imprecisata e senza preavviso, ma a velocità abbastanza elevata da far sì che la maggior parte della massa dell’oggetto bruci all’impatto con l’atmosfera.

Non sono rari i casi di ritrovamenti a terra di detriti orbitali, ma non si sono mai registrati ingenti danni per rientri del tipo di quelli discussi in questo articolo.

La Terra, in fin dei conti, è bombardata costantemente da meteoroidi e meteoriti che spesso arrivano inosservati fino alla superficie, a un ritmo medio di 100 tonnellate di oggetti naturali al giorno.

La massa dello stadio superiore di un razzo si aggira normalmente intorno a qualche tonnellata, e arriva fino a un massimo di 20 tonnellate nel caso del Lunga Marcia 5B, l’unico razzo a stadio singolo attualmente in esercizio.

La grossa differenza con gli oggetti naturali è che quelli artificiali contengono componenti ad alta densità o progettati per resistere al calore, che hanno buone probabilità di superare relativamente indenni le fasi del rientro orbitale.

Il caso delle missioni interplanetarie.

Molto, in questo caso, dipende da quando avviene la separazione tra il carico utile e l’ultimo stadio, ma generalmente quest’ultimo si perde in orbita eliocentrica, cioè lasciando completamente l’orbita terrestre. Il destino può essere diverso, come nel caso del terzo stadio del Saturn V, che dalla missione Apollo 13 in poi è stato fatto schiantare sulla superficie della Luna per motivi scientifici.

È anche successo, e non solo una volta, che uno stadio del Saturn V abbia abbandonato l’orbita terrestre e poi sia tornato quando ormai tutti si erano dimenticati di lui, non riconoscendolo e identificandolo come un nuovo asteroide scoperto.

Il moto in prossimità della Terra del presunto asteroide J002E3. Credit: NASA

Il terzo stadio della missione Apollo 12 superò la Luna, e si perse in orbita eliocentrica per circa 40 anni fino a tornare nei pressi della Terra ed essere identificato come asteroide, ricevendo la denominazione J002E3. A causa di vari giochi di meccanica orbitale, l’oggetto compì alcune orbite attorno al nostro pianeta, prima di lasciarlo (forse) definitivamente.

 

Questioni legali

È infine doveroso fare una breve digressione sulle questioni legali relative alla possibilità che un rientro incontrollato di un razzo, orbitale o suborbitale che sia, arrechi danni a persone o cose. Innanzitutto, è bene sottolineare che anche in questo caso non ci sono accordi internazionali che regolamentino tutte le questioni. Oltre agli accordi sull’uso pacifico dello spazio promossi dall’ONU, l’unico altro trattato a livello di Nazioni Unite a riguardo è il LIAB del 1972 ovvero la Convenzione sulla responsabilità internazionale dei danni causati da oggetti spaziali.

Ma anche in questo caso, non si tratta di una norma che impedisce di far ricadere razzi o detriti spaziali sulla superficie terrestre: il LIAB offre linee guida relative unicamente all’attribuzione delle responsabilità in caso di conseguenze indesiderate.

Inoltre, il LIAB è un accordo tra Stati, e non riguarda direttamente i privati. Se un detrito spaziale cade sulla casa di un cittadino di una nazione differente da quella di chi l’ha lanciato, saranno le due nazioni coinvolte a negoziare il rimborso dei danni. Il privato potrà solo rivalersi sullo Stato di cui è cittadino seguendo la giurisdizione locale, che ovviamente sarà diversa a seconda della nazione.

Mappa degli oggetti arrivati al suolo e rinvenuti dopo un rientro incontrollato. Credit: ESA

Comunque, non è mai successo che una nazione invocasse il LIAB per la caduta di un razzo, e per la caduta di un satellite è successo una volta sola dal momento della sua adozione. Fu infatti applicato nel caso particolare causato della distruzione del satellite sovietico Kosmos 954, i cui frammenti caddero nel 1978 su una vasta porzione del territorio canadese senza causare però danni diretti.

La particolarità di quell’evento sta nel fatto che il contenuto del carico era altamente radioattivo; erano presenti a bordo, infatti, 50 kg di uranio U²³⁵ necessari ad alimentare il reattore nucleare della sonda. In quel caso Canada e Unione Sovietica si accordarono per un risarcimento di 6 milioni di dollari canadesi.

Per quanto concerne le misure messe in atto dalle agenzie spaziali, normalmente il valore di fatalità attribuito al rientro incontrollato di uno specifico oggetto non deve superare una certa soglia limite. Per l’ESA questo valore è fissato a 1:10.000. Si tratta di un valore analogo a quello adottato dalle altre agenzie spaziali e da molte nazioni.

Il rischio per la popolazione poi dipende fortemente dall’inclinazione orbitale più che dalla massa stessa dell’oggetto, ovviamente supponendo che qualche detrito arrivi fino alla superficie terrestre.

La variazione di questo rischio è dovuta principalmente alla distribuzione non uniforme della popolazione terrestre in funzione della latitudine. Un rientro casuale generico ha sempre valori al di sotto della soglia di emergenza riconosciuta, di circa un ordine di grandezza per inclinazioni orbitali tra i 35° e i 40°, e di ben due ordini di grandezza per orbite equatoriali. Ogni caso però ha una storia a sé, e va studiato individualmente.

Termino questa noiosa analisi con una buona notizia, anche se sembra di chiudere la stalla quando i buoi sono già fuggiti, ma almeno evitiamo che scappino anche gli altri. È con questo spirito che trovo una ottima notizia questa iniziativa del World Economic Forum (WEF), dell’Agenzia spaziale europea (ESA) e del MIT Media Lab.: una sorta di pagella da assegnare ai vari operatori del settore spaziale.

Il nuovo rating di sostenibilità dei veicoli spaziali prende di mira la spazzatura spaziale.

Dal 2022, gli operatori di veicoli spaziali potranno ottenere certificati di sostenibilità per le loro missioni.

Da un articolo di Tereza Pultarova di Space.com

Un’immagine concettuale che illustra i detriti spaziali in orbita attorno alla Terra.

Gli operatori di veicoli spaziali potranno richiedere il rating di   sostenibilità a partire dal prossimo anno (2022) per dimostrare che i loro satelliti non presentano rischi inutili nell’ambiente orbitale e contribuiscono al problema della spazzatura spaziale. 

La valutazione, progettata per incoraggiare un comportamento sostenibile, esaminerà vari aspetti della progettazione della missione, tra cui la scelta dell’orbita, le misure per prevenire le collisioni e i piani di de-orbita. 

Le aziende potranno guadagnare punti bonus per l’installazione di funzioni speciali sui loro veicoli spaziali che renderebbero più facile la rimozione attiva alla fine della vita del satellite, come le piastre magnetiche delle maniglie. 

Lo Space Sustainability Rating (SSR) è stato sviluppato congiuntamente dal World Economic Forum (WEF), dall’Agenzia spaziale europea (ESA) e dal MIT Media Lab e sarà supervisionato dal Centro spaziale dell’università tecnologica svizzera École Polytechnique Fédérale de Lausanne (EPFL ), ha affermato il WEF in una dichiarazione rilasciata giovedì (17 giugno).

La valutazione sarà disponibile per tutti i tipi di missioni spaziali, comprese quelle che coinvolgono equipaggi umani. 

Nikolai Khlystov, responsabile per la mobilità e lo spazio al WEF, ha affermato nella dichiarazione che il forum spera che incentivare un comportamento migliore spingerà gli attori del settore spaziale a competere sulla sostenibilità e creare una corsa al vertice.

Il rating offrirà quattro livelli di certificazione. 

I sostenitori del progetto sperano che il raggiungimento di un buon risultato possa offrire alle aziende vantaggi aggiuntivi, come costi assicurativi inferiori o una migliore reputazione tra gli investitori

Holger Krag, capo del programma di sicurezza spaziale dell’ESA, nella dichiarazione ha affermato:”L’SSR mira a influenzare il comportamento di tutti gli attori del volo spaziale, in particolare le entità commerciali e aiuta a portare nell’uso comune le pratiche sostenibili di cui abbiamo disperatamente bisogno. Per raggiungere questo obiettivo, il rating SSR include una valutazione peer-reviewed dei rischi a breve e lungo termine che qualsiasi missione presenta ad altri operatori e per il nostro ambiente orbitale in generale”.

La comunità di esperti è da tempo preoccupata per il crescente numero di satelliti nello spazio. Negli ultimi anni, aziende private come SpaceX , OneWeb e Amazon hanno iniziato a sviluppare megacostellazioni progettate per racchiudere decine di migliaia di satelliti, più di quanti ne fossero stati lanciati nei 64 anni trascorsi dal primo satellite, Sputnik . 

All’aumentare del numero di satelliti, aumenta anche il rischio di collisioni. Le collisioni satellitari , come l’incidente del 2009 tra il satellite per telecomunicazioni statunitense Iridium e il defunto satellite militare russo Kosmos-225, generano enormi quantità di frammenti. Ciascuno di quei frammenti poi continua a sfrecciare sulla propria traiettoria a 28.000 km/h, minacciando altri veicoli spaziali in orbita .

Secondo l’ESA, ci sono attualmente circa 34.000 frammenti di detriti spaziali più grandi di 10 centimetri in orbita attorno alla Terra, oltre a circa 900.000 frammenti tra 1 e 10 cm e l’incredibile cifra di 128 milioni di oggetti tra 1 millimetro e 1 cm. 

Gli esperti ritengono infatti che la quantità di detriti spaziali sia già così elevata che si stanno già manifestando i primi segnali del cosiddetto Effetto Kessler , una dannosa cascata di collisioni che potrebbe rendere inutilizzabili alcune aree dello spazio. 

Danielle Wood, Direttore dello Space Enabled Research Group presso il MIT Media Lab, nel comunicato ha detto: “C’è un lavoro più importante da fare nella ricerca ingegneristica, nella definizione delle politiche e nella costruzione di norme per garantire che la comunità globale possa operare nello spazio per i decenni a venire. Tutti noi che abbiamo contribuito alla SSR ci impegniamo a continuare questo importante lavoro e speriamo che altri continuino a partecipare”.

Il problema dei detriti spaziali sta finalmente ricevendo maggiore attenzione anche a livello politico. 

Al recente vertice dei leader del G-7 in Cornovaglia, nel Regno Unito, i rappresentanti delle principali nazioni industriali hanno concordato di rendere prioritario il problema della spazzatura spaziale al fine di garantire un futuro uso sostenibile dello spazio. 

Ci sono voluti due anni per sviluppare gli Space Sustainability Ratings. La richiesta sarà del tutto volontaria. 

Commentato da Luigi Borghi.

Link correlati:

https://www.space.com/space-sustainability-rating-tackles-space-junk

PREPARATIVI PER L’INVIO DEL 22° CARGO SPACEX VERSO LA ISS.

Il lancio della 22° missione SpaceX di rifornimento per la stazione spaziale è previsto non prima del 3 giugno 2021. In quell’occasione, oltre ai rifornimenti logistici per la stazione e il suo equipaggio, saranno inviati materiali per alcuni interessanti esperimenti scientifici.
Eccone un elenco:

Molte delle informazioni le potete trovare nell’articolo originale: spacex-22-research-highlights

Di seguito analizzeremo gli aspetti più interessanti del carico utile che questa missione sta per inviare alla stazione spaziale.

Gli orsi dell'acqua vanno (o meglio tornano) nello spazio

I tardigradi, meglio conosciuti come “water bears” o orsi dell’acqua, sono piccoli organismi viventi che devono il loro nome per la forma e l’habitat naturale che prediligono: l’acqua. Sono creature molto piccole, gli adulti possono variare da meno di 0,1 mm a 1,5 mm. Le specie marine sono incolori o bianco-grigiastre, mentre quelle terrestri o d’acqua dolce possono essere di vari colori, ad esempio arancioni, gialle, verdi o nere. Sono organismi eutelici (hanno un numero di cellule costante durante il corso della vita; gli individui possono accrescersi solo per volume e non per mitosi). Il corpo, approssimativamente cilindrico, è costituito dal capo e da quattro metameri, ciascuno dei quali porta un paio di zampe che in molte specie marine sono parzialmente retrattili con un meccanismo telescopico. Alle estremità delle zampe vi è un numero variabile di unghie o dita, generalmente compreso tra 4 e 8. Raramente le unghie possono ridursi o mancare del tutto. Il corpo è rivestito da una sottile cuticola extracellulare elastica, formata anche da chitina.

I tardigradi sono diffusi in tutto il pianeta terra. Vi sono specie marine, terrestri e adattate alle acque dolci. Sono stati osservati in tutti i continenti, Antartide inclusa, e a tutte le altezze, dalle zone oceaniche abissali ad altezze superiori ai 6000 metri in Himalaya. Possono essere considerati essenzialmente animali acquatici, in quanto anche le specie terrestri vivono all’interno di strati d’acqua che possono avere lo spessore appena sufficiente per ospitarli. Sono comunque in grado di resistere per tempi lunghissimi al disseccamento e congelamento. La maggioranza delle specie si nutre di cellule vegetali. Vi sono però anche forme predatorie, il cui cibo è fornito da Protozoi, Rotiferi, Nematodi e anche da altri tardigradi. Perché questo piccolo animaletto è così interessante? I tardigradi sono in grado di sopravvivere in condizioni che sarebbero letali per quasi tutti gli altri animali, resistendo in particolare a:

  • mancanza d’acqua (possono sopravvivere fino a 100 anni in condizioni di totale disidratazione);
  • temperature alte o bassissime (possono resistere per pochi minuti a 151 °C, per parecchi giorni a −200 °C (~73K) o per pochi minuti a ~1K);
  • alti livelli di radiazione (anche centinaia di volte più alti di quelli che ucciderebbero un essere umano);
  • alte pressioni (anche sei volte maggiori di quelle dei fondali oceanici);
  • mancanza di ossigeno;
  • raggi UV-A e alcuni tipi perfino ai raggi UV-B.

Queste caratteristiche di grande resilienza hanno attirato l’attenzione di molti scienziati, una delle domande che ci si è posti è: può questa creatura sopravvivere anche alle condizioni ostili dello spazio esterno? Lo scopo di questo esperimento è appunto dare una risposta ancora più precisa a questa domanda. Non è la prima volta che, esemplari d questa specie, vengono inviati nello spazio esterno (e non solo, è stato fatto un tentativo di invio anche sulla luna) per verificarne la resilienza, ecco alcuni precedenti:

Esperimento TARDIS: l’autostop dei tardigradi per un passaggio in orbita.

Nel settembre del 2007 circa 3000 tardigradi, come degli autostoppisti spaziali, hanno ottenuto un “passaggio” a bordo della navicella russa Foton-M3, nell’ambito di oltre 40 esperimenti ESA. L’idea di questo esperimento è stata di un gruppo di scienziati Svedesi e Tedeschi, all’esperimento è stato dato il nome di “TARDIS” acronimo di “Tardigrades in space”.

La capsula Foton-M3, nel settembre del 2007 ha trascorso 12 giorni in orbita attorno alla terra.
La capsula Foton-M3, nel settembre del 2007 ha trascorso 12 giorni in orbita attorno alla terra.

Durante questo missione i tardigradi sono stati esposti per almeno 10 giorni allo spazio esterno tramite un apposito contenitore progettato per l’occasione, chiamato Biopan.

Un dettaglio della struttura Biopan agganciata alla capsula Foton-M3 ed utilizzata per “esporre” i tardigradi allo spazio esterno.

Il risultato principale tratto da questo esperimento è che il vuoto dello spazio esterno, dove troviamo condizioni di estrema disidratazione ed alti livelli di radiazione, non costituisce un grosso problema per i tardigradi, al loro rientro a terra alcuni sono risultati morti ma molti altri, una volta reidratati, sono tornati in vita ed alcuni di loro sono anche stati in grado di riprodursi. I tardigradi si uniscono quindi ad un selezionatissimo gruppo di organismi che, nel corso di oltre 10 anni di esperimenti dell’ESA, hanno dimostrato di essere in grado di sopravvivere al vuoto dello spazio, fra questi semi di lattuga, licheni e alcune di specie di spore batteriche (quest’ultime a patto di essere protette dai raggi solari diretti), i tardigradi però sono qualcosa di speciale perché sono organismi multicellulari di tipo animale.

Sorge una domanda importante: perché alcuni organismi viventi sulla terra sembrano essere pronti a sopravvivere nello spazio esterno? Perché codificato nel loro DNA troviamo strategie di sopravvivenza di questo genere? C’è un razionale in tutto ciò? Ancora nessuno può dirlo con certezza. Nasce però spontaneo un collegamento con alcune teorie che sostengono che tutta o parte della vita sulla terra non abbia avuto origine sulla terra stessa, ma possa essere stata trasportata e “iniettata” sulla terra attraverso meteoriti sopravvissuti al rientro in atmosfera, in sostanza potrebbe essere, anche solo in parte, di origine “aliena”. Proprio per analizzare questo aspetto l’ESA ha condotto diversi esperimenti sul comportamento di rocce esposte al rientro in atmosfera (uno di questi esperimenti è stato condotto proprio durante la missione Foton-M3), il risultato è stato che in diversi casi tutto ciò che si trovava fino a 2 cm di profondità veniva irrimediabilmente distrutto per le condizioni estreme di temperatura e pressione. Tuttavia i risultati di questi esperimenti lasciavano aperta la possibilità che, se un organismo si fosse trovato abbastanza in profondità nella roccia, per esempio in crepe o pori, avrebbe potuto sopravvivere anche a questo evento estremo. Insomma su questo tema non è detta l’ultima parola.

Link correlato: Tiny animals survive exposure to space

Missione Israeliana Beresheet: una gita sulla luna (da incubo) per i tardigradi

Il nome Beresheet in ebraico significa “in principio”. Beresheet è stata la prima missione lunare intrapresa da un organizzazione Israeliana e il primo tentativo, di una compagnia privata, di far atterrare un manufatto sul suolo lunare. Il progetto è stato realizzato per partecipare alla competizione “Lunar X Prize”, sponsorizzato da Google, in cui venne messo in palio un cospicuo premio in denaro (30 milioni di dollari statunitensi) alla prima compagnia private che fosse riuscita nell’impresa di far atterrare sulla Luna un robot a guida autonoma (rover). Il robot avrebbe dovuto percorrere almeno 500 metri e trasmettere immagini e video in alta definizione come prova del riuscito allunaggio. La competizione è stata ufficialmente conclusa, senza vincitori, il 23 gennaio 2018.

La missione è riuscita nell’impresa di posizionare il veicolo in orbita lunare, per risparmiare sul carburante e sul peso da inviare in orbita, è stata impostata una particolare traiettoria che, combinata con le forze gravitazionali in gioco del sistema terra luna, le ha consentito di descrivere orbite ellittiche sempre più ampie fino al punto da venire catturato dalla gravità lunare ed entrarne in orbita.

Una volta entrato in orbita lunare, l’11 aprile del 2019, il veicolo ha ricevuto da terra il comando per iniziare la discesa verso la superficie, nel tentativo di realizzare un allunaggio completo. Purtroppo durante la discesa, un giroscopio dell’unità di misurazione inerziale (IMU2) si è guastato durante la procedura di frenata, il controllo a terra non è stato in grado di far fronte al guasto con operazioni correttive a causa della contemporanea perdita di comunicazioni con il lander. Quando le comunicazioni sono state ripristinate, il motore principale del velivolo era rimasto per troppo tempo. Il motore è stato riportato in linea dopo un ripristino a livello di sistema; tuttavia, il lander aveva già perso troppa quota per rallentare sufficientemente la sua discesa, con conseguente schianto sul suolo lunare. Di seguito le foto del sito di atterraggio prima e dopo lo sfortunato evento viste da Lunar Reconnaissance Orbiter:

Il lander portava con se un carico molto particolare:

  • la “lunar library” una raccolta di 30 milioni di pagine di informazioni realizzate tramite migliaia di immagini ad alta risoluzione compresse in pochi centimetri quadrati, il risultato finale ha le dimensioni più o meno di un DVD.
  • Campioni di DNA umano.
  • Centinaia di tardigradi in stato “disidratato”.

Il carico era protetto da un doppio rivestimento di resina e nickel, il calore dell’impatto, secondo i calcoli, non dovrebbe essere stato sufficiente a danneggiare il rivestimento in nickel. In buona sostanza molto probabilmente il carico interno dovrebbe essersi salvato, ci sono quindi buone probabilità che i tardigradi siano ancora lì in stato “dormiente” in attesa che qualche missione futura li recuperi e magari li reidrati testandone ancora una volta la loro straordinaria capacità di adattamento. Vedremo se e quando qualcuno avrà i mezzi e la voglia per farlo.

Link correlati:
A Crashed Israeli Lunar Lander Spilled Tardigrades on the Moon
Mission Beresheet in depth

Torniamo ora al carico della prossima missione SpaceX

Come abbiamo potuto leggere nei due esempi precedenti, non è certo una novità l’invio di tardigradi nello spazio, tuttavia, nel caso del carico inviato dalla prossima missione SpaceX gli esperimenti saranno molto più sofisticati. In preparazione a questa missione i ricercatori a terra hanno sequenziato completamente il genoma della variante di tardigradi inviati in orbita: Hypsibius exemplaris, e sviluppato un metodo per misurare come differenti condizioni ambientali possano influire sull’espressione genica di queste creature, ovvero come i geni vengano attivati, silenziati, oppure ne venga modulata l’intensità di espressione in risposta a pressioni dovute ad ambienti ostili. Altra caratteristica importante di questo esperimento, chiamato Cell Science-04, è che le analisi avverranno nell’arco di più generazioni di tardigradi. I voli spaziali e le lunghe permanenze nello spazio esterno costituiscono uno stress per l’organismo umano molto elevato, i danni correlati possono compromettere seriamente la salute dei singoli astronauti oltre che il successo dell’intera missione. I risultati di questo esperimento sono potenzialmente importantissimi, possono fornire dati molto utili per aiutarci a capire quali siano i fattori che possono influire negativamente, quali strategia adotta il tardigrado per contrastarli e come adattare queste strategie all’organismo umano per salvaguardare gli astronauti di future missioni.

Link correlato:
Using Water Bears to Identify Biological Countermeasures to Stress During Multigenerational Spaceflight

Come reagisce la simbiosi tra calamaro e microbi benefici in condizioni di assenza di peso?

Un parte del carico di SpaceX 22 è costituito dal materiale per l’esperimento UMAMI (Understanding of Microgravity on Animal-Microbe Interactions). Questo esperimento mira ad esaminare gli effetti del volo spaziale sulle interazioni molecolari e chimiche tra i microbi benefici e i loro ospiti animali. Il ruolo della gravità nel plasmare queste interazioni non è ben compreso e la condizione di assenza di peso offre l’opportunità di migliorare tale comprensione. L’indagine utilizza un sistema animale modello, il calamaro Euprymna scolopes , e il suo batterio simbiotico, Vibrio fischeri , per accertare come i microbi colonizzino ed influenzino lo sviluppo degli animali anche in condizioni particolari come in orbita.

Immagine di calamari immaturi (Euprymna scolopes).
Viene mostrata una cassetta per l’elaborazione dei fluidi Techshot che fa parte del set di strutture hardware per voli spaziali dell’Advanced Space Experiment Processor (ADSEP) di Techshot. 
La cassetta è caricata con piccoli sacchetti che costituiscono “l’acquario” in cui i calamari potranno vivere in orbita. 
Un’immagine ravvicinata di una singola borsa dell’acquario che contiene otto larve di calamaro. 
Le sacche sono collegate a pompe che inietteranno i batteri luminescenti durante il volo spaziale.

Come molti organismi pluricellulari, Il corpo umano è un complesso sistema di relazioni e connessioni, che esprime l’intera struttura fisica di un essere umano, composto da diversi tipi di cellule che insieme formano tessuti, a loro volta sono organizzati in sistemi di organi o apparati, ovvero un sistema in cui tutti i vari sottosistemi o apparati sono in interazione reciproca tra loro per produrre la vita, questo dal punto di vista fisico è spesso visto come un sistema molto ma molto complesso.

Il nostro corpo contiene quindi miliardi di cellule. Sommando il numero di cellule di tutti gli organi del corpo di una persona adulta, troviamo all’incirca 30-37 mila miliardi di cellule nell’organismo. In particolare nel tratto gastrointestinale e sulla pelle sono presenti un ugual numero di cellule non umane e di organismi pluricellulari. Non tutte le parti del corpo sono costituite da cellule. Le cellule sono immerse in un materiale extracellulare costituito da proteine come il collagene, circondato dai fluidi extracellulari.

Dei 70 kg di peso di un corpo umano medio, circa 25 kg è composto da cellule non umane o materiale non cellulare come le ossa e il tessuto connettivo.

In sostanza una parte non trascurabile del nostro corpo non è originato dal DNA delle nostre cellule, si tratta di altri organismi che convivono con noi in equilibrio simbiotico. Questi equilibri sono importantissimi per la nostra salute e il nostro sistema immunitario. Capire quindi queste dinamiche a fondo e anche in ambienti “non convenzionali” è importante per affrontarli al meglio in anticipo.

Questo esperimento si prefigge quindi di iniziare a studiare queste dinamiche partendo da modelli animali più semplici e meno complessi del nostro.

Queste scoperte possono aiutarci a preservare le condizioni di salute degli astronauti nello spazio ma potrebbero anche portare a scoperte mediche per migliorare la salute delle persone rimaste a terra.

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Understanding of Microgravity on Animal-Microbe Interactions

Test di utilizzo di un Ecografo portatile in loco

Butterfly IQ Uitrasound è un dispositivo commerciale portatile che consente di effettuare analisi ecografiche locali utilizzando, come dispositivo di visualizzazione, un comune cellulare o tablet. Questo esperimento intende verificare le potenzialità d’uso di un ecografo portatile in combinazione con un dispositivo di elaborazione mobile in condizioni di assenza di peso. L’indagine raccoglierà il feedback dell’equipaggio sulla facilità di gestione e sulla qualità delle immagini ecografiche, inclusa l’acquisizione, la visualizzazione e l’archiviazione delle immagini.

Un medico dimostra l’uso del Butterfly IQ per l’imaging cardiaco.

APPLICAZIONI SPAZIALI

Le tecnologie basate sul mobile computing come Butterfly IQ Ultrasound possono fornire capacità mediche critiche agli equipaggi sui voli spaziali a lungo termine in cui il supporto immediato a terra non è un’opzione.

APPLICAZIONI TERRESTRI

Questa tecnologia ha potenziali applicazioni per l’assistenza medica in contesti remoti e isolati sulla Terra.

Link correlato:
Butterfly IQ Ultrasound

Sviluppare driver di robot migliori

Pilote, un esperimento/indagine dell’ESA (Agenzia spaziale europea) e del Centre National d’Etudes Spatiales (CNES), si propone di verificare l’efficacia del funzionamento remoto di bracci robotici e veicoli spaziali utilizzando la realtà virtuale e interfacce basate sulla percezione aptica o tocco e movimento simulati. I test dell’ergonomia per il controllo di bracci robotici e veicoli spaziali devono essere eseguiti in condizioni di assenza di peso, perché i test progettati a terra utilizzerebbero principi ergonomici che non si adattano alle condizioni sperimentate su un veicolo spaziale in orbita. Pilote confronta le tecnologie esistenti e nuove, comprese quelle recentemente sviluppate per controllo remoto di un operazione chirurgica e altre utilizzate per pilotare il braccio robotico Canadarm2 e il veicolo spaziale Soyuz. L’indagine confronta anche le prestazioni degli astronauti a terra e durante le missioni spaziali di lunga durata verificando se l’esposizione a lungo termine alla mancanza di peso evoca cambiamenti nelle prestazioni sensomotorie.

Studi recenti hanno dimostrato che il modo in cui il cervello utilizza le informazioni sensoriali per la percezione e per il controllo dei movimenti orientati ad un certo obbiettivo cambia nelle condizioni di assenza di peso e che le prestazioni nei compiti di coordinazione visivo-motoria sono influenzate negativamente. Ciò sembra essere dovuto al fatto che sulla Terra la direzione verticale, che viene rilevata dall’orecchio interno e da altri recettori gravitazionali distribuiti nel corpo, viene utilizzata come quadro di riferimento ispetto al quale i segnali sensoriali provenienti dal visivo, i sistemi propriocettivi e tattili sono codificati. Inoltre, i segnali di gravità sembrano giocare un ruolo fondamentale nella capacità del cervello di combinare visione, propriocezione e tatto.

Per le attività di Pilote, l’astronauta esegue compiti simili a quelli che potrebbe svolgere mentre si gioca ad un videogioco, in cui deve controllare dispositivi robotici virtuali attraverso l’uso di un controller tattile e un visore per realtà virtuale. L’indagine Pilote include due diversi set di attività: attività di PILOTAGGIO e attività di CATTURA.

Nelle attività di PILOTAGGIO l’operatore utilizza il dispositivo tattile per controllare i 6 gradi di libertà (posizione e orientamento) di un oggetto virtuale per seguire percorsi predefiniti nel modo più preciso e rapido possibile. Ogni set di attività è composto da più prove che differiscono in termini di percorso che l’oggetto virtuale deve seguire. Questo insieme di percorsi viene selezionato per testare diverse combinazioni di rotazioni di imbardata, beccheggio e rollio e spostamento lineare necessario per raggiungere la posizione finale dell’oggetto pilotato.

I concetti di Beccheggio rollio ed imbardata nell’esempio di un aereo.

Nel protocollo CAPTURE, l’operatore guida un braccio robotico virtuale con l’obiettivo di agganciare un oggetto bersaglio, cioè come per afferrare un satellite errante o attraccare con la Stazione Spaziale Internazionale. In contrasto con il protocollo PILOTING sopra descritto, l’attività CAPTURE enfatizza il raggiungimento della posizione target il più rapidamente e senza intoppi possibile, senza vincoli sul percorso richiesto per raggiungere quella posizione.

Si ipotizza che i dati raccolti durante queste indagine troveranno applicazioni sia spaziali che terrestri.

APPLICAZIONI SPAZIALI
I risultati delle attività Pilote forniranno importanti informazioni necessarie per ottimizzare l’ergonomia delle postazioni di lavoro a bordo della stazione spaziale e per i futuri veicoli spaziali per le missioni sulla Luna e su Marte. Questo design della stazione di lavoro per il controllo di dispositivi robotici come bracci robotici, veicoli spaziali e rover può sfruttare i criteri di ottimizzazione specifici delle condizioni di assenza di peso identificati attraverso le attività di Pilote.

APPLICAZIONI TERRESTRI
L’opportunità di testare la destrezza umana nell’utilizzo di nuovi approcci alla teleoperazione e al pilotaggio in assenza di peso consente la convalida di teorie e metodologie per interfacce uomo-macchina ottimali attraverso l’uso di aptica. Progettando interfacce in grado di affrontare le sfide che la vita in orbita presenta al corpo umano per la coordinazione occhio-mano, le metodologie risultanti possono portare a una migliore integrazione delle informazioni gravitazionali nella progettazione di interfacce destinate ad essere utilizzate sulla Terra.

Link correlato:
Pilote

Proteggere i reni nello spazio e sulla Terra

Alcuni membri dell’equipaggio mostrano una maggiore suscettibilità ai calcoli renali durante il volo, tutto ciò può influire negativamente sulla loro salute e sul successo della missione. Gli astronauti che vivono in orbita sulla ISS possono sperimentare disidratazione, stasi e demineralizzazione ossea, tutti fattori che contribuiscono frequentemente ai calcoli renali. L’ indagine Kidney Cells-02 utilizza un modello 3D di cellule renali (o chip di tessuto) per studiare gli effetti dell’assenza di peso sulla formazione di microcristalli che possono portare a calcoli renali. Fa parte dell’iniziativa Tissue Chips in Space , una partnership tra l’ ISS US National Laboratorye il National Institutes of Health’s National Center for Advancing Translational Sciences (NCATS) per analizzare gli effetti della vita in orbita sulla salute umana e tradurli in miglioramenti sulla Terra. Questa indagine potrebbe rivelare percorsi critici dello sviluppo e della progressione della malattia renale, portando potenzialmente a terapie per trattare e prevenire i calcoli renali per gli astronauti e, si stima ,per 1 persona su 10 sulla Terra che li sviluppa.

Con questo studio, i ricercatori sperano di identificare biomarcatori o ‘firme’ dei cambiamenti cellulari che si verificano durante la formazione di calcoli renali. Questo può portare a nuovi interventi terapeutici. La logica alla base di questo studio sulla stazione spaziale è che i microcristalli si comportino in un modo simile a quello che accade nei nostri reni, il che significa che rimangono sospesi nei tubi dei chip renali e non affondano sul fondo, come fanno nei laboratori sulla Terra. In condizioni di mancanza di peso, si prevede che questi microcristalli rimangano sospesi in modo uniforme, consentendo una migliore osservazione dei loro effetti. Nell’ambito di questa indagine, i microcristalli di ossalato di calcio (un componente comune dei calcoli renali) vengono introdotti in un tubulo riempito di cellule renali. Le cellule vengono valutate per segni molecolari di infiammazione e lesioni.

Immagini al microscopio elettronico a scansione di microcristalli di ossalato di calcio generati presso l’Università di Washington & Kidney Research Institute.
Il Nortis Organ Chip al microscopio nel laboratorio di Edward Kelly nel Dipartimento di Farmaceutica dell’Università di Washington. L’immagine mostra sullo sfondo un tubulo di cellule renali.

I risultati potrebbero supportare la progettazione di trattamenti migliori per condizioni come calcoli renali e osteoporosi per astronauti e persone sulla Terra, in particolare ci si attende che l’indagine produca risultati importanti sia per applicazioni a terra che per il volo spaziale:

APPLICAZIONI SPAZIALI
I membri dell’equipaggio in condizioni di assenza di peso hanno dimostrato una maggiore suscettibilità ai calcoli renali, che potrebbe rappresentare un’emergenza medica con conseguenze negative sulla salute dei membri dell’equipaggio e sul successo della missione. Questa indagine potrebbe rivelare percorsi critici dello sviluppo e della progressione della malattia renale e produrre nuove terapie per trattare e prevenire i calcoli renali, nonché altre malattie renali e l’osteoporosi, a beneficio sia degli astronauti che delle persone con queste condizioni sulla Terra.

APPLICAZIONI TERRESTRI
Circa 20 milioni di americani hanno una malattia renale cronica e 1 persona su 10 sviluppa un calcolo renale durante la vita. Attualmente, nessuna terapia farmacologica disponibile può ritardare o invertire la progressione della malattia renale cronica o dei calcoli renali. Una migliore comprensione dei fattori che contribuiscono alla corretta struttura e funzione dei tubuli renali può portare alla scoperta di trattamenti innovativi per queste condizioni.

Link correlato:
Effects of Microgravity on the Structure and Function of Proximal and Distal Tubule MPS

Produrre cotone più resistente

Le piante di cotone che sovraesprimono un determinato gene (AVP1) mostrano una maggiore resistenza ai fattori di stress, come la siccità, e producono il 20% in più di fibre di cotone rispetto alle piante senza quella caratteristica in determinate condizioni di stress. Questa resistenza allo stress è stata provvisoriamente collegata ad un sistema radicale potenziato che può attingere a un volume maggiore di terreno per l’acqua e le sostanze nutritive. Il TICTOC (Targeting Improved Cotton Through On- Orbit Cultivation ) studia come la struttura del sistema radicale influenzi la resilienza delle piante, l’efficienza nell’uso dell’acqua e il sequestro del carbonio durante la fase critica della creazione delle piantine. I modelli di crescita delle radici dipendono dalla gravità e TICTOC potrebbe aiutare a definire quali fattori ambientali e geni controllano lo sviluppo delle radici in assenza di peso. I confronti tra campioni in orbita e di controllo a terra consentirannol’identificazione di geni espressi in modo differenziale tra queste condizioni.

Anche la morfologia delle piante verrà analizzata utilizzando le immagini scattate durante l’indagine. Ogni immagine verrà sottoposta ad un’analisi morfometrica utilizzando il software di analisi della crescita delle piante Phenotiki e RootTrace. I parametri da quantificare includono la lunghezza del germoglio e della radice, il numero e la spaziatura della radice laterale, la rettilineità degli organi e la curvatura della punta. I confronti tra i trattamenti sono supportati da analisi statistiche (test t e F; ANOVA). L’analisi della parete cellulare consente la correlazione dei profili di espressione genica ai cambiamenti nella composizione del polimero della parete cellulare e nell’architettura del sistema radicale. Questi studi aiuteranno a scoprire l’impatto dell’ambiente di volo spaziale della ISS sulla crescita delle piantine di cotone e determinare se l’aumento dell’espressione di AVP1 fornisce una contromisura alle sollecitazioni che il sistema di radici del cotone incontra mentre cresce nello spazio.

Piantine di cotone per l’indagine TICTOC preparate per il volo.

L’obbiettivo dell’esperimento è quello di raccogliere dati per ottenere sia risultati applicabili al volo spaziale e colonizzazione di ambienti extraterrestri, ma anche risultati utilizzabili direttamente a terra:

APPLICAZIONI SPAZIALI
Per sperare di poter colonizzare altri ambienti extraterrestri, gli esseri umani devono essere in grado di coltivare piante per la produzione di cibo e ossigeno. La conoscenza generale di come la gravità influenza la struttura e la crescita delle radici delle piante acquisita in questa indagine potrebbe contribuire agli sforzi futuri per coltivare piante nello spazio.

APPLICAZIONI TERRESTRI
Ogni anno vengono prodotte più di 25 milioni di tonnellate di cotone da utilizzare in una varietà di prodotti di consumo tra cui abbigliamento, lenzuola e filtri per il caffè. Il cotone ha molti vantaggi economici e personali, ma la sua produzione comporta anche significativi effetti ambientali. Alcune stime mostrano che la produzione di un chilogrammo di cotone richiede migliaia di litri di acqua. La coltivazione del cotone comporta anche un uso intensivo di prodotti chimici agricoli, che possono influire sulla salute dei lavoratori e sugli ecosistemi circostanti. Questa indagine potrebbe migliorare la comprensione dei sistemi di radici del cotone e dell’espressione genica associata e consentire lo sviluppo di coltivazioni di cotone più robuste che richiedano meno acqua e uso di pesticidi.

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Targeting Improved Cotton Through On-orbit Cultivation

Potenza bonus per la ISS! Nuovi array solari per alimentare la ricerca sulla stazione spaziale internazionale della NASA

Mentre la Stazione Spaziale Internazionale orbita attorno alla Terra, le sue quattro coppie di array solari assorbono l’energia del sole per fornire energia elettrica per le numerose ricerche e indagini scientifiche condotte ogni giorno, così come per le continue operazioni della piattaforma orbitante. La stazione spaziale è il trampolino di lancio per le missioni Artemis della NASA sulla Luna, e una piattaforma per testare tecnologie avanzate per l’esplorazione umana dello spazio profondo e la futura missione su Marte. La NASA ha anche aperto la stazione spaziale per attività commerciali e attività commerciali , comprese le missioni di astronauti privati. Tutto questo richiede un consumo energetico via via crescente.

Progettati per una durata di servizio di 15 anni, gli array solari hanno funzionato ininterrottamente da quando la prima coppia è stata consegnata e montata nel dicembre 2000 , con coppie di array aggiuntive consegnate nel settembre 2006, giugno 2007 e marzo 2009 . La prima coppia di pannelli solari ha fornito energia elettrica continua alla stazione per più di 20 anni!

Sebbene funzionino bene, gli attuali pannelli solari stanno mostrando segni di degrado, come previsto. Per garantire che venga mantenuta un’alimentazione sufficiente per tutte le attività previste la NASA aumenterà sei degli otto canali di alimentazione esistenti della stazione spaziale con nuovi pannelli solari. Boeing, l’appaltatore principale della NASA per le operazioni della stazione spaziale, la sua sussidiaria Spectrolab e il principale fornitore Deployable Space Systems (DSS) forniranno i nuovi array. La combinazione degli otto array originali più grandi e dei nuovi array più piccoli ed efficienti ripristinerà la generazione di energia di ciascun array riportandoli approssimativamente alla quantità generata quando gli array originali sono stati installati per la prima volta.

I nuovi array solari saranno una versione più grande della tecnologia Roll-Out Solar Array (ROSA) che ha dimostrato con successo le capacità meccaniche del dispiegamento degli array solari durante il test sulla stazione spaziale nel giugno 2017.

Il test di dispiegamento nel 2017 mediante l’utilizzo del braccio robotico Canadarm2

Più piccolo e leggero dei pannelli solari tradizionali, il Roll-Out Solar Array, o ROSA , è costituito da un’ala centrale realizzata con un materiale flessibile contenente celle fotovoltaiche per convertire la luce in elettricità. Su entrambi i lati dell’ala c’è un braccio stretto che estende la lunghezza dell’ala per fornire supporto, chiamato Braccio composito distribuibile (DCB) ad alta tensione. I DCB sono strutture tubolari fatte di un materiale composito rigido, appiattiti e arrotolati longitudinalmente per il successivo dispiegamento. L’array si srotola o apre senza motore, utilizzando l’energia immagazzinata dalla struttura dei bracci che viene rilasciata quando ciascun braccio passa da una forma a bobina a un braccio di supporto diritto.

Immagine dell’ala completamente dispiegata.

ROSA può essere facilmente adattato a diverse dimensioni, inclusi array molto grandi, per fornire energia a una varietà di futuri veicoli spaziali. Ha anche il potenziale per rendere i pannelli solari più compatti e leggeri per la radio e la televisione satellitare, le previsioni meteorologiche, il GPS e altri servizi utilizzati sulla Terra. Inoltre, la tecnologia essere tranquillamente adattata per fornire energia solare in luoghi remoti. La tecnologia dei bracci ha ulteriori potenziali applicazioni, come per le comunicazioni, le antenne radar e altri strumenti.

I nuovi array solari saranno posizionati di fronte a sei degli attuali array e utilizzeranno il tracciamento solare, la distribuzione dell’energia e la canalizzazione esistenti. Questo approccio è simile a quello utilizzato per aggiornare le telecamere esterne della stazione ad alta definizione, utilizzando i meccanismi di alimentazione e controllo esistenti.

Sei array solari iROSA nella configurazione pianificata

I nuovi array oscureranno poco più della metà della lunghezza degli array esistenti e saranno collegati allo stesso sistema di alimentazione per aumentare l’offerta esistente. Gli otto array correnti sono attualmente in grado di generare fino a 160 kilowatt di potenza durante il giorno orbitale, di cui circa la metà è immagazzinata nelle batterie della stazione per essere utilizzata mentre la stazione non è esposta alla luce solare. Ogni nuovo pannello solare produrrà più di 20 kilowatt di elettricità, per un totale di 120 kilowatt (120.000 watt) di potenza aumentata durante il giorno orbitale. Inoltre, la coppia rimanente di array solari scoperti e gli array originali parzialmente scoperti continueranno a generare circa 95 kilowatt di potenza per un totale di fino a 215 kilowatt (215.000 watt) di potenza disponibile per supportare le operazioni della stazione al termine. Per fare un confronto, un computer e un monitor attivi possono consumare fino a 270 watt e un piccolo frigorifero utilizza circa 725 watt.

Un enorme radiotelescopio nella parte nascosta della Luna.

C’è voluto mezzo secolo per superare la risoluzione e la sensibilità del radiotelescopio di Arecibo a Portorico. Ci ha pensato il FAST cinese di 500 metri e la natura con il tornado che ha definitivamente messo la parola fine ad Arecibo (forse).

Questi radiotelescopi terrestri hanno tutti un paio di problemi abbastanza invadenti.

Il primo: le emissioni elettromagnetiche provocate dall’uomo e dalle sue attività. Ovviamente queste intrusioni, questi “disturbi” vengono filtrati ed esclusi dal segnale che si vuole realmente vedere ma questo comporta comunque una riduzione delle loro capacità ed anche, a volte, sovrapposizione e ambiguità del risultato.

Secondo: la barriera degli strati alti della ionosfera che riflette verso l’esterno le onde lunghe provenienti dallo spazio. La stessa che, dal basso, consente ad un radioamatore di arrivare in tutto il mondo utilizzando appunto la riflessione verso il basso che in questo caso è di aiuto.

Ma c’è un posto qui vicino a noi (abbastanza) che è “pulito” da elettromagnetismo androgeno o di origine artificiale provocato da tecnologia terrestre: la faccia nascosta della Luna!

Un sogno pensato e ridiscusso da molto tempo, ma ora la NASA ha cominciato ad investire in questo progetto per arrivare ad una proposta fattibile ed economicamente accettabile.

Il concetto iniziale della NASA potrebbe vedere dei robot appendere una rete metallica in un cratere sul lato più lontano della Luna, creando un potentissimo radiotelescopio in grado di sondare lo spazio fino all’alba dell’universo. 

Dopo anni di sviluppo, il progetto Lunar Crater Radio Telescope (LCRT) ha ricevuto $ 500.000 per supportare il lavoro aggiuntivo mentre entra nella Fase II del programma Innovative Advanced Concepts (NIAC) della NASA. 

Questa illustrazione mostra un radiotelescopio concettuale del cratere lunare sul lato opposto della Luna.

L’obiettivo principale dell’LCRT sarebbe quello di misurare le onde radio a lunga lunghezza d’onda generate in un periodo che è durato alcune centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, ma prima che le prime stelle iniziassero a lampeggiare. 

I cosmologi sanno poco di questo periodo, ma le risposte ad alcuni dei più grandi misteri della scienza potrebbero essere rinchiuse nelle emissioni radio a lunga lunghezza d’onda generate dal gas che avrebbe riempito l’universo durante quel periodo.

“Anche se non c’erano stelle, c’era una grande quantità di idrogeno durante quel breve periodo dell’universo – idrogeno che alla fine sarebbe servito come materia prima per le prime stelle”, ha detto Joseph Lazio, radioastronomo del Jet Propulsion Laboratory della NASA nel sud della California e membro del team LCRT. “Con un radiotelescopio sufficientemente grande al largo della Terra, potremmo seguire i processi che avrebbero portato alla formazione delle prime stelle, forse anche trovare indizi sulla natura della materia oscura”.

I radiotelescopi sulla Terra non possono sondare questo periodo misterioso perché le onde radio a lunga lunghezza d’onda di quell’era vengono riflesse da uno strato di ioni ed elettroni nella parte superiore della nostra atmosfera, la ionosfera. 

Le emissioni radio casuali della nostra rumorosa civiltà possono interferire anche con la radioastronomia, soffocando i segnali più deboli.

Ma sul lato più lontano della Luna, non c’è atmosfera che rifletta questi segnali e la Luna stessa bloccherebbe le “chiacchiere” radio dell’umanità sull Terra. 

Il lato lunare più lontano potrebbe essere la prima postazione fissa per condurre studi senza precedenti sull’universo primordiale.

Saptarshi Bandyopadhyay, un tecnologo di robotica al JPL e ricercatore capo del progetto LCRT ha detto: “I radiotelescopi sulla Terra non possono vedere le onde radio cosmiche di circa 10 metri o più (< 30 MHz) a causa della nostra ionosfera, quindi c’è un’intera regione dell’universo che semplicemente non possiamo vedere. Ma le idee precedenti di costruire un’antenna radio sulla Luna erano molto complesse e impegnative in termini di risorse, quindi siamo stati costretti a inventare qualcosa di diverso”.

Costruire telescopi con i robot.

Per essere sensibile alle lunghe lunghezze d’onda radio, l’LCRT dovrebbe essere enorme. 

L’idea è di creare un’antenna di oltre 1 chilometro di larghezza in un cratere di oltre 3 chilometri di larghezza. 

I più grandi radiotelescopi a parabola singola sulla Terra, come il telescopio con apertura di 500 metri (FAST) in Cina e l’ormai inoperativo di 305 metri di larghezza ad Arecibo a Porto Rico – sono stati costruiti all’interno di depressioni naturali simili a scodelle nel paesaggio per fornire una struttura di supporto.

Questa classe di radiotelescopi utilizza migliaia di pannelli riflettenti sospesi all’interno della depressione per rendere l’intera superficie dell’antenna riflettente alle onde radio. Il ricevitore si sospende quindi tramite un sistema di cavi in ​​un punto focale sopra la parabola, ancorato da torri al perimetro della parabola, per misurare le onde radio che rimbalzano sulla superficie curva sottostante. 

Ma nonostante le sue dimensioni e complessità, anche FAST non è sensibile alle lunghezze d’onda radio più lunghe di circa 4,3 metri (< 69 MHz).

Il team di ingegneri, robotisti e scienziati del JPL, ha condensato e concentrato questa classe di radiotelescopi fino alla sua forma più elementare. Il loro concetto elimina la necessità di trasportare materiale pesantemente proibitivo sulla Luna e utilizza robot per automatizzare il processo di costruzione. 

Invece di utilizzare migliaia di pannelli riflettenti per focalizzare le onde radio in arrivo, l’LCRT sarebbe costituito da una sottile rete metallica al centro del cratere. 

Un veicolo spaziale consegnerebbe la rete e un lander separato depositerà rover DuAxel per costruire la parabola per diversi giorni o settimane.

DuAxel, un concetto robotico in fase di sviluppo presso JPL, è composto da due rover ad asse singolo (chiamati Axel) che possono sganciarsi l’uno dall’altro ma rimanere collegati tramite un cavo. Una metà fungerebbe da ancora sul bordo del cratere mentre l’altra si cala in corda doppia per costruire l’edificio. In questo filmato lo vediamo all’opera nel deserto del Mojave in California, due ore di auto a sud di Las Vegas.

La superficie della Luna è coperta di crateri, e una delle depressioni naturali potrebbe fornire una struttura di supporto per un piatto del radiotelescopio. Come mostrato in questa illustrazione, i rover DuAxel potevano ancorare la rete metallica dal bordo del cratere.

Credits: Vladimir Vustyansky

“DuAxel risolve molti dei problemi associati alla sospensione di un’antenna così grande all’interno di un cratere lunare”, ha detto Patrick Mcgarey, un tecnologo di robotica al JPL e membro del team dei progetti LCRT e DuAxel. “I singoli rover Axel possono entrare nel cratere mentre sono legati, collegarsi ai cavi, applicare tensione e sollevare i cavi per sospendere l’antenna”.

In questa illustrazione, il ricevitore può essere visto sospeso sopra il piatto tramite un sistema di cavi ancorati al bordo del cratere.

Credits: Vladimir Vustyansky.

Identificare le sfide.

Affinché il team possa portare il progetto al livello successivo, utilizzerà i finanziamenti della Fase II del NIAC per affinare le capacità del telescopio e i vari approcci di missione identificando le sfide lungo il percorso.

Una delle maggiori sfide del team durante questa fase è la progettazione della rete metallica. 

Per mantenere la sua forma parabolica e la precisa spaziatura tra i fili, la rete deve essere resistente e flessibile, ma abbastanza leggera da poter essere trasportata. 

La maglia deve anche essere in grado di sopportare i mostruosi cambiamenti di temperatura sulla superficie della Luna – da un minimo di – 173 gradi Celsius a un massimo di + 127 gradi Celsius – senza deformazioni o cedimenti.

Un’altra sfida è identificare se i rover DuAxel devono essere completamente automatizzati o se sia necessario coinvolgere un operatore umano nel processo decisionale. 

La costruzione DuAxels potrebbe essere completata anche da altre tecniche di costruzione? 

Sparare arpioni sulla superficie lunare, ad esempio, può ancorare meglio la rete dell’LCRT, richiedendo meno robot.

Inoltre, per ora, il lato lunare è “radio silenzioso”, ciò però potrebbe cambiare in futuro. 

L’agenzia spaziale cinese ha attualmente una missione che esplora quel lato lunare lontano, dopotutto, e l’ulteriore sviluppo della superficie lunare potrebbe avere un impatto su possibili progetti di radioastronomia.

Per i prossimi due anni, il team LCRT lavorerà per identificare anche altre sfide e domande. Se avranno successo, potranno essere selezionati per un ulteriore sviluppo.

Patrick Mcgarey ha detto: “Lo sviluppo di questo concetto potrebbe produrre alcune scoperte significative lungo il percorso, in particolare per le tecnologie di distribuzione e l’uso di robot per costruire strutture gigantesche al largo della Terra. Sono orgoglioso di lavorare con questo team diversificato di esperti che ispirano il mondo a pensare a grandi idee che possono fare scoperte rivoluzionarie sull’universo in cui viviamo”.

NIAC è finanziato dalla direzione della missione della tecnologia spaziale della NASA, che è responsabile dello sviluppo delle nuove tecnologie e capacità trasversali necessarie all’agenzia.

Commentato da Luigi Borghi.

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https://www.nasa.gov/feature/jpl/lunar-crater-radio-telescope-illuminating-the-cosmic-dark-ages

https://www.spacedaily.com/reports/Illuminating_the_Cosmic_Dark_Ages_with_a_Lunar_radio_telescope_999.html

Abbiamo due stazioni spaziali in orbita terrestre.

La vecchia cara ed internazionale stazione spaziale (ISS) ed ora anche il primo modulo, il core, della nuova stazione cinese: il Tianhe-1.

Proprio oggi 29 aprile, alle 5:22 italiane, è stato lanciato con successo Tianhe-1, il primo modulo della nuova stazione spaziale cinese, con un razzo Lunga Marcia 5B. Il vettore è decollato dal centro di lancio di Wenchang, nell’isola di Hainan, in Cina. (Vedi mappa sotto).

Una data oggi che vale la pena ricordare nelle nostre News perché è sicuramente un momento storico dell’astronautica mondiale.

Inizia una nuova e serrata competizione spaziale che ricorda quella degli anni Sessanta. Ora però i concorrenti sono cambiati: allora vi era solo USA e URSS, e sappiamo come è andata. In gioco c’era il prestigio e l’orgoglio nazionalista mescolato con onnipresente dimostrazione di supremazia militare.

Oggi è rimasto ancora ovviamente qualche reminiscenza dei vecchi impulsi ma si è inserito a pieno titolo un’altra potente leva che spinge sui competitors: “il business”.

Lo spazio è diventato un secondo “Eldorado”. La possibilità di accedere sulla Luna e sugli asteroidi a minerali carenti sulla Terra e la concreta possibilità di proporre un “turismo spaziale” per pochi, ma facoltosi clienti, stanno diventando i traguardi ed i premi della nuova competizione.

Dei vecchi competitors oggi sono rimasti solo gli Stati Uniti e al posto della disciolta URSS si è inserita prepotentemente la Cina che ha dimostrato, con le sue missioni lunari e marziane ed ora con la sua nuova stazione spaziale, di poter entrare a pieno titolo nel club.

La ISS, frutto della collaborazione tra USA, Russia, Europa, Canada e Giappone, resterà operativa con questi connotati fino al 2025, dopodiché probabilmente qualcuno si ritirerà e quasi certamente verrà ristrutturata ad uso privato (vacanze in orbita, ricerca per aziende private, hotel a molte stelle).

Lo stesso “club” della attuale ISS, a meno della Russia che sembra essersi ritirata, sta già costruendo i moduli del Gateway, la stazione orbitante lunare che dovrebbe entrare in servizio approssimativamente nello stesso periodo di quella cinese intorno alla Terra.

Il Gateway e la stazione cinese sono più o meno della stessa dimensione, ma molto più piccole della attuale ISS.

Un rendering della nuova stazione cinese.

Questo evento oltre a rilanciare la competizione spaziale che non può che portare benefici a tutto il mondo con i suoi ritorni tecnologici, evidenzia anche altri aspetti che invece non sono eclatanti.

Prima considerazione: qual è il ruolo dell’Europa in questa competizione? Le capacità tecnologiche e industriali della Comunità Europea sono invidiabili e non temono confronti, tuttavia stiamo diventando gli ultimi del club!  Vero che collaboriamo con NASA, con Russia e che l’Italia in particolare è un partner presente anche nelle missioni interplanetarie della NASA, ma il nostro lanciatore europeo, Ariane, sta seguendo un percorso lento.

Dovremmo essere dei protagonisti ma non riesco a vedere ancora dove e con cosa.

Seconda considerazione: la Russia. In quel paese vi sono delle menti e delle esperienze nel settore astronautico che hanno portato la ex Unione Sovietica a restare in testa alla competizione spaziale degli anni Sessanta per quasi un decennio tenendo testa agli USA che stavano arrancando.

Dove è andata a finire quell’esperienza? La mia opinione è che è ancora lì, ma senza soldi!

E l’esperienza, se non cresce, muore!

L’attuale ed ormai pluridecennale governo russo, un paese che ha un PIL inferiore all’Italia, spende soldi cercando di mantenere alto il suo potere militare, ma sta trascurando il futuro. La formidabile ed infallibile Soyuz che ha garantito a mezzo mondo, incluso gli americani, di poter andare e tornare dallo spazio, è diventato un “divano” su cui si è seduta l’astronautica russa.

Le nuove generazioni di vettori e navicelle stentano ad uscire dal CAD/CAM dei computer dove sono già “vecchie”.

Io spero di sbagliarmi ma le notizie, non confermate, che il ritiro russo dal progetto Gateway motivato dal disaccordo con la NASA per un ruolo marginale, sia stato invece un passo necessario per potersi alleare con i cinesi nella conquista della Lune e di Marte. Ciò significherebbe per i russi, a mio avviso, accettare la sconfitta! L’alleato cinese sta investendo e crescendo ad una velocità inaccessibile ai russi che non potendoli seguire diventerebbero gregari. Questo non va bene! Non fa bene alla crescita del settore.

Una velocità di crescita, quella cinese, che incredibilmente è invece accessibile al terzo concorrente, un outsider impensabile fino a qualche anno fa: le aziende private.

SpaceX di Elon Musk in testa ma anche Virgin Galactic di Richard Branson, Blue Origin di Jeff Bezos, la Sierra Nevada, la Boeing ed altri, controllate da miliardari lungimiranti, hanno capito bene cosa succederà domani nel campo della evoluzione del business e di conseguenza ciò che guadagnano lo reinvestono in nuove tecnologie spaziali… e con successo.

Questo sarà a mio avviso il vero vincitore di questa neonata competizione Luna-Marte. Per ora sono solo aziende americane ma il privato non lavora per il paese che lo ospita ma per chi gli dà lavoro.

Vi propongo questo articolo tratto da Astronauti News che spiega bene le caratteristiche di questa nuova stazione cinese, mentre qua sotto vi lascio il programma che la porterà ad essere operativa nel 2023.

Commentato da Luigi Borghi.

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Un buco nero nel sistema solare?

La prima sensazione che ci pervade leggendo questo titolo è la paura.

Abbiamo spesso parlato, qui su queste pagine, di buchi neri super massicci con masse di miliardi di volte il Sole e con diametri che ingloberebbero l’orbita di Venere. Beh… tranquillizziamoci! Un buco nero di quella natura e dimensioni non lo potremo mai vedere nel sistema solare per due solide ragioni: 1) la vita in prossimità non potrebbe mai attecchire; 2) un sistema planetario come quello solare  ci sarebbe finito dentro tutto intero. Ma questo è un altro discorso. Se fino ad ora non abbiamo mai visto questo ipotetico e piccolissimo blackhole all’interno del sistema solare, nonostante telescopi a terra di 36 metri di diametro, un motivo ci sarà: forse, oltre ad essere “nero”, molto piccolo e anche molto distante (nella fascia di Kuiper), molto semplicemente non c’è!

Ma è una ipotesi più che lecita e vediamo il perchè.

Tutto è partito diversi anni fa quando i ricercatori hanno cominciato e vedere, oltre Nettuno, strane coincidenze. In quella fascia di Kuiper, dove orbitano tanti asteroidi, una popolazione di piccoli mondi ghiacciati simili a Plutone, non tutti si comportano allo stesso modo. In diversi hanno un’orbita dall’eccentricità anomala o molto più inclinata rispetto a tutti gli altri. Solo il campo gravitazionale di un pianeta piuttosto massiccio potrebbe produrre questi effetti.

Alcuni sono arrivati ​​a sospettare vi sia un pianeta molte volte la massa della Terra. E così la presenza di “Planet 9” viene più volte richiamata sul palcoscenico del Sistema solare. Nel 2016 furono annunciate le prove indirette della sua esistenza. Ma nessuno lo ha mai visto. Troppo lontano e buio. Si pensa sia una “super-Terra”, da cinque a dieci volte la massa del nostro Pianeta, dovrebbe trovarsi talmente lontano (da almeno 300 volte la distanza Terra-Sole, circa 45 miliardi di chilometri, fino a mille volte tanto) da essere praticamente invisibile a qualsiasi telescopio ottico.

Il problema è che nessuno può immaginare come un pianeta abbastanza grande da farlo possa formarsi così lontano dal sole. 

Ecco che dal momento che dalle osservazioni si deduce in modo indiretto solo la massa dell’oggetto allora un anno fa è venuto il sospetto che possa essere un buco nero primordiale.

Senza dubbio la trama del film di fantascienza “Interstellar” ha pescato proprio da questi dubbi.

Se fosse vero, sarebbe una scoperta sensazionale. 

I buchi neri primordiali ci darebbero una nuova finestra sull’universo primordiale. Potrebbero persino comprendere la materia oscura, la misteriosa sostanza che tiene insieme le galassie. Tutto ciò spiega perché i cosmologi hanno setacciato l’universo per loro. Ma nessuno aveva osato sognare che avremmo potuto trovarne uno nel nostro cortile.

A suggerire questa ipotesi sono stati due fisici: Jakub Scholtz, dell’Università di Durham e James Unwin, dell’università di Chicago e Berkeley.

Lo studio, tuttavia, è stato pubblicato solo sulla piattaforma Arxiv e pare non sia stato nemmeno sottoposto a una rivista per essere valutato da altri esperti (peer review).

Ma la loro teoria sta già facendo il giro del mondo perché è suggestiva e coinvolge un tipo di oggetti ancora solo teorizzati e mai osservati, nemmeno nei loro effetti.

Come premesso in apertura non stiamo parlando di un gigante super massiccio divoratore di stelle e pianeti. Quelli stanno al centro delle galassie. Né di un buco nero di massa stellare che si trovano in giro per il cosmo, magari in coppia con altre stelle. L’ipotesi di Scholtz e Unwin è ancora più suggestiva: un buco nero primordiale. Si tratta di oggetti, per ora solo teorizzati, che potrebbero essersi formati quando l’Universo era ancora giovanissimo e la concentrazione di materia era talmente densa da formare piccoli buchi neri, con masse di molto inferiori a quella necessaria per formarne uno “di massa stellare” (che si origina dal collasso di una stella molto più massiccia del Sole).

Quello che dovremmo cercare è dunque un buco nero davvero minuscolo, dalle cinque alle dieci masse terrestri che starebbero comodamente nel palmo di una mano.

Dieci Terre starebbero dentro ad una palla da bowling!

La loro teoria sta in piedi perché dal momento che è impossibile che nella formazione di una stella come il Sole, un pianeta roccioso così grosso si formi a quella distanza, si ipotizza che l’eventuale pianeta 9 possa essere di origine extrasolare e che sia stato catturato dalla gravitazione solare. Ma questa teoria ha le stesse probabilità che ha un buco nero primordiale di essere catturato nello stesso modo. In astronomia le teorie non osservabili stanno in piedi con le percentuali, quindi una vale l’altra.

Ma come trovarlo visto che si tratta di un oggetto molto più “nero” di un pianeta? Come per tutti i buchi neri, occorre osservare gli effetti su quello che lo circonda. In particolare, materia oscura.
Secondo Unwin e Scholtz, l’alone di materia oscura che lo circonderebbe potrebbe estendersi per otto unità astronomiche (un miliardo e 200 milioni di chilometri, la distanza tra la Terra e Saturno). Come la Relatività generale insegna (e abbiamo sperimentato) la gravità piega anche la luce. Tutta quella materia (oscura e non) dovrebbe dunque generare un effetto di “lente gravitazionale”, deviando l’immagine delle stelle sullo sfondo. Oggetti così piccoli danno origine a microlensing. Il progetto polacco Ogle, a caccia di materia oscura e richiamato nello studio, ne ha osservati diversi.

Secondo l’ipotesi, dunque, i segnali da ricercare per scovare il misterioso intruso ai confini del Sistema solare sono quelli tipici di un buco nero, alte energie come raggi X e raggi gamma.

Il bello è che in Fisica e tra le stelle, per la scienza, non si può mai escludere nulla. Nemmeno ipotesi più ardite come questa del buco nero.

Tuttavia, resterà il dubbio sui calcoli dei due fisici, se il loro lavoro non sarà sottoposto a revisione da altri colleghi.

Come si sono formati questi ipotetici buchi neri primordiali?

(da un articolo di Leah Crane): all’inizio “la luce fu”. 

Poi, apparvero altre macchie scure, la luce le circondava prima di cadervi dentro come acqua in uno scarico. 

Questi sarebbero stati i primi abitanti del nostro universo, strani piccoli buchi neri che si rimpinzavano delle radiazioni fuoriuscite dal big bang.

Man mano che il cosmo si espandeva e si raffreddava, i loro banchetti rallentarono.

Dopo milioni di anni, parte della radiazione che aveva riempito il cosmo lsciò il posto alla materia, che alla fine si è aggregò per formare le prime stelle, pianeti e galassie. 

Nel corso del tempo, alcune stelle sono diventate così grandi che quando hanno esaurito il carburante e sono collassate, si sono trasformate in buchi neri. Ma cosa è successo ai loro lontani antenati dall’alba dei tempi? Forse quei primissimi buchi neri primordiali svanirono (radiazione di Hawking) o forse erano abbastanza grandi da sopravvivere fino al presente. In ogni caso, potrebbero aiutare a risolvere alcuni dei maggiori problemi della cosmologia. 

Sempre che siano mai stati lì.

Commentato da Luigi Borghi.

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https://www.lescienze.it/news/2019/10/09/news/buco_nero_primordiale_sistema_solare_trans-nettuniano-4577376/

https://www.universoastronomia.com/2020/07/13/pianeta-nove-e-un-buco-nero-primordiale/

Useremo il GPS anche sulla Luna!

Quando si parla di tornare sulla Luna, si pensa subito a potentissimi razzi, come il SLS della NASA, il Super Heavy (BFR) della SpaceX, il CZ9 cinese o i Enisej e Don russi (di cui, come al solito, si sa poco o nulla) ed a complesse procedure, sistemi di allunaggio e navette di ritorno. Infatti, sono elementi essenziali ed indispensabili, ma non sufficienti!
Sulla Luna e dintorni bisogna muoversi, sapere dove si è e dove si deve andare. Insomma, serve un sistema di navigazione!
Tutto ciò mi ricorda un fatto emblematico accadutomi una decina di anni fa, durante una delle mie serate di astronomia ed astronautica al Parco Ferrari a Modena. Stavo illustrando la spedizione di Apollo 11 e in quel periodo i cosiddetti “complottisti” erano ancora numerosi e convinti. Uno di questi (che durante tutta la mia spiegazione mi aveva guardato con superiorità) alla fine se ne usci con un: “Si informi meglio, sono tutte balle inventate dagli americani! Mi meraviglio che lei ce le venga a raccontare”. Naturalmente ero preparato, non era la prima volta. Quindi cercai di capire quali erano le sue ragioni e la sua risposta mi stupì: “Come hanno potuto andare sulla Luna e muoversi se nel 1969 il GPS non era ancora stato inventato?” Giuro che ne avevo sentite tante dai negazionisti, ma questa mi giunse nuova. Tentai di spiegargli che non era necessario il GPS, che l’intero nostro mondo era stato mappato ed esplorato quando non c’era neanche la radio e la corrente elettrica. Non servì a nulla! Se ne andò convinto della sua tesi.
Gli dissi pure che, ci fosse anche stato il GPS, comunque, non avrebbe funzionato al di fuori della Terra. In effetti questo sistema di satelliti non è stato studiato per servire viaggi spaziali o gite fuori porta sulla Luna.
Ma la NASA si sta dando da fare parecchio per smentire questa mia tesi.

Infatti, presso il Goddard Space Flight Center di Greenbelt, nel Maryland la NASA ha una moltitudine di strumenti a sua disposizione sperimentati in mezzo secolo di esperienza per la navigazione in missioni di esplorazione spaziale in orbita lunare e sulla sua superficie. In alcuni di questi vi è pure il contributo italiano. Ma andiamo con ordine.

Durante le prossime missioni, Artemis, oltre a comprovate capacità di navigazione, utilizzerà tecnologie innovative basate su una solida combinazione di capacità per fornire la disponibilità, la resilienza e l’integrità richieste da un sistema di navigazione in situ. Alcune delle tecniche di navigazione analizzate per Artemis includono: Radiometria, ottimetria e altimetria laser.




Il Lunar Orbiter Laser Altimeter (LOLA) a bordo del Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO) invia impulsi laser sulla superficie della Luna dalla sonda in orbita. Questi impulsi rimbalzano sulla Luna e ritornano a LRO, fornendo agli scienziati misurazioni della distanza dal veicolo spaziale alla superficie lunare. Mentre LRO orbita attorno alla Luna, LOLA misura la forma della superficie lunare, che include informazioni sulle elevazioni e le pendenze della superficie lunare. Questa immagine mostra i pendii trovati vicino al Polo Sud della Luna.
Crediti: NASA / LRO

La radiometria, l’ottimetria e l’altimetria laser misurano le distanze e la velocità utilizzando le proprietà delle trasmissioni elettromagnetiche. Si misura il tempo impiegato da una trasmissione per raggiungere un veicolo spaziale e lo si divide per la velocità di spostamento della trasmissione (la velocità della luce), ricavandone una distanza.

Queste misurazioni accurate sono state le fondamenta della navigazione spaziale sin dal lancio del primo satellite, fornendo una misurazione accurata e affidabile della distanza tra il trasmettitore e il ricevitore del veicolo spaziale. Allo stesso tempo è possibile osservare la velocità di variazione della velocità del veicolo spaziale tra il trasmettitore e il veicolo spaziale a causa dell’effetto Doppler (la variazione di frequenza percepita da una sorgente in movimento).

La radiometria e l’ottimetria misurano le distanze e la velocità tra un veicolo spaziale e le antenne terrestri o altri veicoli spaziali utilizzando rispettivamente i loro collegamenti radio e i collegamenti di comunicazione ottica a infrarossi. Nell’altimetria laser e nel raggio laser spaziale un veicolo spaziale o un telescopio terrestre riflette i laser sulla superficie di un corpo celeste o un riflettore appositamente designato per giudicare le distanze.

Navigazione ottica.

Le tecniche di navigazione ottica si basano sulle immagini delle telecamere di un veicolo spaziale. Ci sono tre rami principali della navigazione ottica utilizzabili a seconda della distanza dall’obiettivo:

La navigazione ottica basata sulle stelle utilizza oggetti celesti luminosi come stelle, lune e pianeti per la navigazione (Star Trackers). Sono computer armati di obiettivi, come nella immagine, che devono puntare e seguire una o più stelle. L’angolo formato tra la direzione dell’obiettivo e la struttura del mezzo che lo ospita fornisce i valori di rollio, beccheggio ed imbardata, quindi l’assetto di un veicolo spaziale e possono definire la loro distanza dagli oggetti utilizzando gli angoli tra di loro (usati anche nel progetto Apollo).

Uno star tracker.

Quando un veicolo spaziale si avvicina a un corpo celeste, l’oggetto inizia a riempire il campo visivo della telecamera. I “navigatori” (umani o computer) ricavano quindi la distanza del veicolo spaziale dal corpo usando il suo profilo – il bordo apparente del corpo – e il centroide, o centro geometrico calcolato in base all’arco.

All’approccio più vicino, Terrain Relative Navigation utilizza le immagini della telecamera e l’elaborazione del computer per identificare le caratteristiche della superficie note e calcolare la rotta di un veicolo spaziale in base alla posizione di tali caratteristiche nei modelli o nelle immagini di riferimento. Anche questo usato su Apollo.

Segnale debole GPS e GNSS.

Infine, “udite udite”, la NASA sta sviluppando capacità che consentiranno alle missioni sulla Luna di sfruttare i segnali delle costellazioni del Global Navigation Satellite System (GNSS) come il GPS USA. Questi segnali, già utilizzati su molti veicoli spaziali in orbita attorno alla Terra, miglioreranno i tempi, la precisione del posizionamento e aiuteranno i sistemi di navigazione autonomi nello spazio cislunare e lunare.

Ma come faranno ad utilizzare i segnali dei satelliti GPS che hanno le loro antenne rivolte verso la superfice terrestre?

La NASA ha esplorato la fattibilità dell’utilizzo di segnali del lobo laterale (SIDE LOBE) dal lato opposto della Terra, per la navigazione ben al di fuori di quello che era stato considerato il volume del servizio spaziale e nello spazio lunare. Negli ultimi anni, la Missione Magnetosferica Multiscala (MMS) ha persino determinato con successo la sua posizione utilizzando segnali GPS a distanze quasi a metà strada Terra-Luna.

Oltre i 1.800 miglia di altitudine, la navigazione con GPS diventa più impegnativa. Questa distesa di spazio è chiamata Space Service Volume e si estende da 1.800 fino a circa 22.000 miglia (36.000 km) o orbita geosincrona. 

Ad altitudini oltre le costellazioni GNSS stesse gli utenti devono iniziare a fare affidamento sui segnali ricevuti dal lato opposto della Terra.

Dal lato opposto del globo la Terra blocca gran parte dei segnali GNSS (vedi figura in basso), quindi i veicoli nel volume del servizio spaziale devono “ascoltare” i segnali che si estendono ai lati della Terra, che si estendono ad angolo rispetto alle antenne GNSS. 

Formalmente la ricezione GNSS nel volume del servizio spaziale si basa sui segnali ricevuti entro circa 26 gradi dal segnale più forte delle antenne. Tuttavia, la NASA ha avuto un notevole successo utilizzando segnali del lobo laterale GNSS più deboli (che si estendono ad un angolo ancora maggiore dalle antenne) per la navigazione dentro e oltre il volume del servizio spaziale.

Dagli anni ’90 gli ingegneri della NASA hanno lavorato per comprendere le capacità di questi lobi laterali. In preparazione per il lancio del primo satellite meteorologico Geostationary Operational Environmental Satellite-R nel 2016 la NASA ha cercato di documentare meglio la forza e la natura dei lobi laterali per determinare se il satellite possa soddisfare i suoi requisiti.

Un grafico che dettaglia le diverse aree di copertura GNSS.

Crediti: NASA

https://www.nasa.gov/feature/goddard/2021/nasa-explores-upper-limits-of-global-navigation-systems-for-artemis

I “navigatori” della NASA hanno simulato la disponibilità del segnale GNSS vicino alla Luna. La loro ricerca indica che questi segnali GNSS possono svolgere un ruolo fondamentale nelle ambiziose iniziative di esplorazione lunare della NASA fornendo accuratezza e precisione senza precedenti (l’avessi saputo 10 anni fa non avrei infierito così tanto sul povero complottista!)

La NASA sta lavorando ad un approccio interoperabile che consentirebbe alle missioni lunari di sfruttare più costellazioni contemporaneamente. I veicoli spaziali vicino alla Terra ricevono abbastanza segnali da una singola costellazione per calcolare la loro posizione. Tuttavia, a distanze lunari, i segnali GNSS sono meno numerosi. Le simulazioni mostrano che l’utilizzo di segnali da più costellazioni migliorerebbe la capacità delle missioni di calcolare la loro posizione in modo coerente.

Per dimostrare e testare questa capacità sulla Luna, la NASA sta progettando il Lunar GNSS Receiver Experiment (LuGRE), sviluppato in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana (eccoci qua! Ci siamo anche noi!)

LuGRE volerà su una delle missioni commerciali Lunar Payload Services della NASA e prevede di farlo atterrare sul bacino del Mare Crisium della Luna nel 2023.

LuGRE riceverà segnali sia dal GPS che da Galileo (il GNSS gestito dall’Unione Europea)

I dati raccolti verranno utilizzati per sviluppare sistemi GNSS lunari operativi per future missioni sulla Luna. 

 Servizi di navigazione LunaNet

Crediti: NASA / Resse Patillo.

LunaNet è un’architettura di comunicazione e navigazione unica sviluppata dal programma Space Communications and Navigation (SCaN) della NASA. Gli standard, i protocolli ed i requisiti di interfaccia comuni di LunaNet estenderanno l’internetworking alla Luna offrendo flessibilità e accesso ai dati senza precedenti.

Per la navigazione l’approccio LunaNet offre indipendenza operativa e maggiore precisione combinando molti dei metodi di cui sopra in un’architettura senza soluzione di continuità. 

Il software di navigazione autonoma sfrutta misurazioni come radiometria, navigazione celeste, altimetria, navigazione relativa al terreno e GNSS per eseguire la navigazione a bordo senza contatto con operatori o risorse sulla Terra e consentendo ai veicoli spaziali di manovrare indipendentemente dai controllori della missione terrestre. 

Questo livello di autonomia consente la reattività all’ambiente spaziale dinamico.

La navigazione autonoma può essere particolarmente utile per l’esplorazione dello spazio profondo, dove il ritardo delle comunicazioni può ostacolare la navigazione in situ. Ad esempio, le missioni su Marte devono attendere da otto a 48 minuti per le comunicazioni di andata e ritorno con la Terra, a seconda delle dinamiche orbitali. Durante le manovre critiche i veicoli spaziali necessitano del processo decisionale immediato che il software autonomo può fornire.

Insomma, anche sulla Luna o su Marte avremo un dispositivo, come quello nella illustrazione, che pur non essendo un GPS ci garantirà più o meno lo stesso servizio con qualche cosa in più

Commentato da Luigi Borghi.

Link correlati

https://www.nasa.gov/feature/goddard/2021/nasa-engineers-analyze-navigation-needs-of-artemis-moon-missions

https://www.nasa.gov/SCaN/

Il radiotelescopio di Arecibo ci manca.

Oggi ho pensato di ripescare il disastro del radiotelescopio di Arecibo a Porto Rico, il più potente del mondo prima dell’avvento del FAST cinese, perché leggendo un articolo su Space Daily (che vi propongo nel link) appare evidente l’importanza che aveva questa parabola da 300 metri nel mondo scientifico.

“Secondo la NASA questo crollo renderà difficili alcune osservazioni di una imminente missione su asteroidi”.

Vediamo perché.

La NASA, in collaborazione con altre agenzie, sta studiando e sviluppando un metodo per deviare la traiettoria di un asteroide qualora si riscontrasse una rotta di collisione con la Terra. Un progetto che prevede l’individuazione del pericolo di collisione diversi anni prima dell’impatto, cosa che oggi siamo in grado di fare.

Nel nostro caso specifico si tratta della missione Double Asteroid Redirection Test (DART).

L’obiettivo principale della missione sugli asteroidi DART, che avrà luogo nel 2022, è quello di far schiantare un veicolo spaziale contro una piccola luna che orbita attorno all’asteroide Didymos e osservare come l’impatto influisce sul suo movimento. 

L’osservazione iniziale di tale impatto non sarà influenzata molto dalla perdita di Arecibo, ma le immagini radar di follow-up saranno limitate a un telescopio radar più piccolo e meno sensibile, il Goldstone Observatory nella California meridionale, che fa parte del sistema Deep Space Netwok (DSP) utilizzato per la comunicazione con le sonde interplanetarie.

Arecibo avrebbe potuto dare un valore aggiunto a tale missione, usando il potente radar per confermare ciò che i telescopi ottici osserveranno comunque sull’impatto dalla luce riflessa.

Senza Arecibo, utilizzando solo Goldstone, questo sarà più difficile, ma sarà comunque realizzabile.

SpaceX prevede di lanciare il veicolo spaziale DART dalla base dell’aeronautica di Vandenberg in California. Il costo totale della missione è di circa 320 milioni di dollari, incluso il lancio.

Ma quale sarà il futuro di questa struttura? Si ricostruirà un radiotelescopio più potente?

Qui si evidenzia di nuovo la guerra di pensiero tra chi sostiene lo spazio come ambiente ideale per investire in telescopi (necessariamente più piccoli e costosi oltre che difficilmente manutenibili) e chi invece preferisce la terra con grandi telescopi a portata di mano.

La National Science Foundation (NSF), proprietaria della struttura di Arecibo, ha affermato che un nuovo progetto di costruzione di questo tipo dovrebbe seguire il processo dell’organizzazione per la costruzione di nuove strutture importanti, in altre parole ripartire da zero.

Arecibo è gestito da una coalizione di organizzazioni guidata dall’Università della Florida centrale la quale apprezza che la NSF abbia in programma di mantenere aperte alcune strutture dell’osservatorio, tra cui il centro visitatori e una parabola di soli 12 metri di diametro.

La fondazione prevede anche una serie di seminari a giugno per ascoltare idee per il futuro di Arecibo.

È impressionante la precisione temporale con la quale era stato previsto il crollo. Come si vede da questo video c’era un drone in volo con l’obiettivo rivolto proprio verso il cavo che per primo si è rotto ed ha dato inizio al disastro.

I cavi del telescopio si erano lesi nei mesi precedenti il ​​crollo, ma gli investigatori non sono ancora in grado di individuare la causa di quei guasti. La struttura, fino al suo collasso, era stata uno strumento principale per un consorzio di scienziati noto come NANOgrav per studiare i buchi neri supermassicci basati sulla rilevazione delle onde gravitazionali.

In un documento pubblicato a dicembre, gli scienziati che hanno utilizzato Arecibo hanno delineato le loro speranze per un nuovo e più potente telescopio radar da ricostruire ad Arecibo.

Questo processo potrebbe richiedere anni poiché la comunità astronomica esamina le priorità a lungo termine.

Il piatto di Arecibo è stato costruito a Porto Rico perché gli scienziati avevano individuato una valle delle dimensioni e della forma giuste per supportare la sua enorme struttura. 

Ovviamente io spero che venga ricostruito, più moderno e magari con la possibilità di entrare in rete interferometrica con il FAST cinese. Sarebbe un goal per l’osservazione del cosmo, per la collaborazione internazionale… ma forse resterà un sogno. Io però ci credo al punto che Arecibo è un protagonista nel mio nuovo romanzo “Civiltà scomparsa”, che uscirà a giorni, dove nel 2074 verrà utilizzato per una nuova impresa di comunicazione con…. Beh, basta così. Altrimenti non ci sarà soddisfazione nel leggerlo. Manderò un messaggio quando vi sarà la presentazione on line sul canale 85 del digitale terrestre TVB studio 85, con il giornalista Tito Taddei nella sua rubrica Observer.

Commento di Luigi Borghi.

Ecco l’articolo che trovate su:

https://www.spacedaily.com/reports/Arecibo_telescope_collapse_may_complicate_NASA_asteroid_mission_999.html

Il filmato del collasso.

Il volo della SN10 di SpaceX: successo o fallimento?

Nella tarda notte di mercoledì 3 marzo, a Boca Cica in Texas, sede della base di lancio e test della Space X, la compagnia del miliardario Elon Musk, è stato eseguito il terzo tentativo di lancio del prototipo di Star-ship SN10 (SN sta per Serial Number).  Naturalmente io ero lì, sintonizzato su uno dei tanti canali YouTube che lo facevano vedere dal vivo. Devo dire però che mai come in questo caso i giudizi postumi sul test siano stati così distanti l’uno dall’altro. Diametralmente opposti: si va dal grandioso successo al drammatico fallimento.

Mi sono pertanto sentito il dovere di fare chiarezza.

SpaceX, come anche altre aziende private di cultura anglosassone, seguono un metodo sperimentale molto veloce e pragmatico per arrivare alla innovazione tecnologica, in particolare in quei settori dove non ci sono esperienza pregresse e dove è possibile sbagliare senza rischiare vite umane. Uso una frase dell’amico Leonardo Avella: È una questione culturale. Nei paesi latini il fallimento è visto come una vergogna. Nei paesi anglosassoni ed in certe zone dell’America no. Il punto è che il metodo “prova e sbaglia senza vergogna” permette di progredire molto più in fretta”.

Proprio così! Certo che questo metodo deve essere abbondantemente rivisto quando a bordo del mezzo vi saranno degli astronauti, ma di certo, prima di questo obiettivo, è decisamente l’approccio più veloce.

La SpaceX sta usando risorse sue e non deve chiedere il permesso al Congresso degli Stati Uniti per spenderli!

Deve solo rispondere ai suoi azionisti i quali non guardano ai risultati parziali ma al raggiungimento degli obiettivi e su questo punto sono stati ampliamente soddisfatti.

Vi ricordate quanti Falcon9 ha perso la SpaceX in fase di rientro a terra prima di validare i mezzi ed il software per garantire il successo? Ebbene ora SpaceX è l’unica azienda al mondo, incluse le agenzie spaziali governative, ad avere questa possibilità: il riutilizzo dei booster per lanci orbitali fino ad una decina di volte!

Ciò l’ha portata ad essere assolutamente competitiva. A questo guardano gli azionisti!

Per evidenziare meglio l’approccio “prova-sbaglia-correggi e riprova” ricordo l’esempio del filamento della lampadina ad incandescenza. Quanti tentativi miseramente falliti sono stati fatti da Thomas Edison, da Joseph Wilson Swan ed anche da Nikola Tesla? Migliaia! Era una tecnologia nuova, di frontiera. Poi fu Edison a brevettarla nel 1879. Non esisteva neanche la possibilità di un approccio di tipo diverso. Certo, Elon Musk è messo meglio di Thomas Edison, ma è anche vero che non deve solo accendere una lampadina ma provare mezzi che porteranno persone su Marte!

Ma veniamo al test del SN10.

Provo a fare un elenco degli obiettivi che si era posta la SpaceX:

  1. Provare la struttura delle Star-ship in volo.
  2. Testare l’uso dei motori Raptor. Voglio ricordare che i Raptor sono gli unici motori al mondo, funzionanti in Open Cycle Full Flow Staged Combustion Cycle (FFSC), che abbiano mai volato. Una configurazione complessa, realizzata in buona parte con crescita 3D e ad alto rendimento. Sono alimentati a metano perché (una delle ragioni) il metano è un combustibile che si può ricavare anche su Marte attraverso il processo Sabatier (processo usato oggi sulla ISS per produrre ossigeno). Questo ricordiamocelo è il vero obiettivo di Eloin Musk: colonizzare Marte.
  3. Collaudo delle quattro ali laterali per far planare l’astronave durante il rientro in atmosfera. Un rientro che, dal punto di vista della dissipazione del calore, non è ancora stato testato perché bisogna andare in orbita per farlo, ma il collaudo ha dimostrato di riuscire a mantenere il controllo di assetto senza l’uso di motori.
  4. Provare i serbatoi – in particolare i due piccoli, gli Header Tank (serbatoi di testa), che alimentano i motori durante la fase di discesa e che perciò hanno un volume inferiore rispetto ai due principali; 
  5. La tecnica di cambio di assetto da orizzontale a verticale durante le ultime fasi.
  6. l’atterraggio, controllo della decelerazione usando ancora i Raptor.
  7. Il software di gestione del volo.

Ebbene di tutta questa tecnologia assolutamente nuova, i risultati positivi si sono avuti già dal primo test sulla SN8, che si piantò per terra più di un mese fa ed anche nella SN 9 che, più o meno, fece la stessa fine. Sulla SN8 gli obiettivi da 1 a 5 furono raggiunti. Sulla SN9 sono stati di nuovo confermati, mentre solo in quest’ultima, la SN10, finalmente hanno avuto esito positivo anche i punti 6 e 7.

Allora perché dopo alcuni minuti dall’atterraggio, quando l’esperimento era già finito, è scoppiato?

Forse è di nuovo arrivato troppo forte e si è danneggiato qualche piede della nave (che ricordiamocelo è alta 50 metri) provocando una perdita di metano?

Io non lo so, ma sono certo che Elon Musk da questo test avrà avuto tutti i feedback per evitare che ciò accada di nuovo in futuro. “Sbagliando si impara”!

Quini devo concludere che è stato, anzi sono stati tutti assieme, un successo.

Io aggiungerei anche GRANDE, ma non cambierebbe nulla.

Sono fallimenti la mancata realizzazione di un progetto, non un progetto sbagliato che si può migliorare; lo sono pure la realizzazione di progetti che altri hanno già fatto senza aumentane le prestazioni o ridurne costi. La SpaceX non annovera questi fallimenti.

Voglio precisare che non sono un azionista di SpaceX e neanche di Tesla, e solo la mia opinione da “addetto ai lavori”.

Commento di Luigi Borghi.

Ecco l’articolo che trovate su:

Il filmato della esplosione postuma.

L’artricolo:

https://www.spacedaily.com/reports/SpaceX_more_risks_better_rockets_999.html