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Commenti alle notizie scientifiche della settimana.

Come ottenere acqua sulla Luna.

Un problema che comincia a diventare attuale, visto che la NASA sta facendo sul serio. Sulla Luna ci si torna nel 2024… per restarci!

Beh… non esageriamo! Ci staremo sicuramente in orbita con un presidio umano sul Gateway, l’avamposto orbitale posizionato intorno alla Luna che fungerà da base di supporto a lungo termine per tutte le missioni del programma Artemis, ma una base permanente e presidiata sulla superfice della Luna ci vorrà ancora un po’ di tempo, ma non certo decenni!

La NASA fa sul serio perché ha appena firmato un contratto con la SpaceX per lanciare in orbita lunare, a maggio 2024 con un razzo Falcon Heavy, due elementi fondamentali del Lunar Gateway.

Gli elementi saranno il Power and Propulsion Element (PPE, modulo di produzione energia e propulsione) e l’HALO, Habitation and Logistic Outpost (l’avamposto abitativo e logistico).

Nello specifico il PPE, realizzato dalla Maxar Technologies di Westminster in Colorado, è un sistema propulsivo elettrico alimentato a energia solare con una potenza complessiva di 60 kW che permetterà di stabilire e mantenere comunicazioni ad alta velocità con la Terra e di gestire il controllo dell’assetto dell’avamposto e dell’orbita sulla quale sarà posizionato, con la possibilità di variare quest’ultima al fine di fornire un accesso più rapido e semplice alla superficie lunare.

HALO sarà invece il modulo abitativo, costruito dalla Northrop Grumman Space Systems di Dulles in Virginia, nel quale risiederanno gli astronauti che visiteranno il Gateway. È costituito da una sezione pressurizzata nella quale saranno presenti tutti i supporti vitali di base e che fungerà da centro di comando e controllo dell’intera struttura. Permetterà inoltre di svolgere attività di ricerca scientifica, distribuirà l’energia prodotta dal modulo propulsivo, assicurerà il controllo termico della stazione e sarà infine dotato di diverse zone di attracco per supportare e gestire i futuri moduli e i veicoli che visiteranno il Gateway.

L’avamposto, molto più piccolo dell’attuale Stazione Spaziale Internazionale, sarà posizionato su una particolare orbita definita Near-rectilinear halo orbit, ovvero un’orbita halo quasi rettilinea con pericinzio e apocinzio a distanza rispettivamente di 3.000 e 70.000 km dalla superficie della Luna.

(vedi animazione  qui (https://youtu.be/jfCaac1ijRg )  

Le particolari condizioni “ambientali” in cui il Gateway si troverà permetteranno alla NASA e ai suoi partner internazionali di svolgere ricerche scientifiche e tecnologiche senza precedenti, sviluppando così competenze e conoscenze fondamentali per lo sviluppo dell’esplorazione umana dello spazio.

Ma quando poi dovremo presidiare e quindi vivere per mesi sulla superficie della Luna ci servirà una risorsa essenziale: l’acqua! Ma come si fa ad estrarre acqua dalla Luna?

Comprendere le fonti dell’acqua lunare è fondamentale per studiare la storia dell’evoluzione lunare, così come l’interazione del vento solare con la Luna e altri corpi senz’aria. Recenti osservazioni spettrali orbitali hanno rivelato che il vento solare è un significativo fattore esogeno dell’idratazione superficiale lunare. 

Ciò indica che l’abbondanza di acqua nelle regioni polari può essere saturata o integrata da altre possibili fonti, come il vento terrestre (particelle dalla magnetosfera, distinte dal vento solare), che possono compensare le perdite di diffusione termica mentre la Luna si trova all’interno della magnetosfera terrestre. Questo lavoro fornisce alcuni indizi per gli studi sui sistemi pianeta-luna, in base al quale il vento planetario funge da ponte che collega il pianeta con le sue lune.

Ma la fonte principale di acqua sottoforma di ghiaccio resta comunque la zona polare.

L’acqua lunare è stata trovata bloccata sotto forma di ghiaccio nei crateri freddi, permanentemente ombreggiati ai poli della Luna, e alla deriva sotto forma di gas nella sottilissima atmosfera lunare. Inoltre, abbiamo scoperto che l’acqua esiste in tracce sulla superficie della Luna, legata ai minerali lunari. Ma l’acqua lunare è più complicata della sua semplice presenza o assenza. Si pensa anche che la Luna abbia un ciclo dell’acqua: l’acqua viene continuamente creata o consegnata alla superficie della Luna, quindi distrutta o rimossa da essa.

Comprendere i processi di guida in questo ciclo ci consentirà di sfruttare al meglio le risorse della Luna e di approfondire la nostra comprensione della fisica che influenza i corpi rocciosi senz’aria in tutto il nostro sistema solare e oltre. Sulla base di esperimenti di laboratorio e osservazioni lunari, ecco la nostra comprensione finora:

Produzione.

Riteniamo che la produzione continua di acqua superficiale lunare possa essere in gran parte guidata dai protoni in arrivo (nuclei di idrogeno) dal vento solare, che poi si legano con l’ossigeno nei minerali lunari per formare l’acqua. Possono anche contribuire altri processi, come la produzione da fonti aggiuntive di protoni in arrivo o il rilascio episodico di acqua tramite comete e asteroidi.

Rimozione.

L’acqua sulla superficie lunare viene rimossa principalmente attraverso processi continui come la fotodissociazione, la decomposizione delle molecole d’acqua da parte della luce solare.

Con le ricche osservazioni recentemente prodotte da missioni come lo spettrometro Moon Mineralogy Mapper (M3) della NASA sulla sonda orbitante indiana Chandrayaan-1, siamo attualmente in una posizione eccellente per testare questa comprensione.

In una nuova pubblicazione guidata da Huizi Wang (Università di Shandong e Accademia delle scienze cinese), un team congiunto di fisici spaziali e scienziati planetari presenta un’esplorazione della produzione di acqua sulla superficie della Luna.

Produzione ventosa.

Mentre la Luna circonda la Terra, trascorre 3-5 giorni ogni mese al riparo dal vento solare dalla magnetosfera terrestre. Se i protoni in arrivo dal vento solare sono il motore principale della produzione di acqua lunare, sostengono Wang e collaboratori, le misurazioni dell’abbondanza di acqua lunare dovrebbero mostrare una diminuzione durante quei 3-5 giorni, supponendo che l’acqua continui a essere distrutta alla stessa velocità tramite la fotodissociazione .

Invece, gli autori scoprono che la spettroscopia di M3 non rivela alcun cambiamento nell’abbondanza di acqua sull’orbita lunare completa, nonostante le osservazioni mostrino il previsto calo dell’energia eolica solare in arrivo quando la Luna passa attraverso la magnetosfera terrestre.

Un’altra fonte potrebbe contribuire alla produzione di acqua sulla Luna, mantenendo costanti le abbondanze? Wang e collaboratori dimostrano che quando la Luna è protetta dal vento solare, i protoni in arrivo dal vento terrestre – un flusso più debole di particelle cariche dalla magnetosfera terrestre – potrebbero fornire i protoni necessari per mantenere le abbondanze d’acqua osservate sulla superficie della Luna.

Ci sono ancora molte domande aperte, ma il futuro riserva maggiori opportunità per affinare la nostra comprensione. La missione lunare cinese Chang’e 5 ha misurato con successo il materiale lunare e riportato campioni sulla Terra alla fine dell’anno scorso, e le missioni Artemis sulla Luna in programma forniranno presto ulteriori informazioni.

Rapporto di ricerca: “Il vento terrestre come possibile fonte esogena di idratazione della superficie lunare”.

Commento di Luigi Borghi.

Ecco l’articolo da:

https://www.moondaily.com/reports/How_to_Get_Water_on_the_Moon_999.html

https://aliveuniverse.today/flash-news/spazio-astronomia/5137-la-terra-rifornisce-acqua-sulla-luna

Anche le galassie muoiono.

Non è una scoperta! È una conclusione scientifica. Se le stelle muoiono ovviamente anche le galassie, che loro stesse formano, dovranno prima o poi soccombere. Ma questa è la prima volta che viene documentato, attraverso osservazioni, un fenomeno del genere.
Gli astronomi, per la prima volta, sono riusciti ad osservare l’imminente morte di una galassia molto lontana: la ID2299. In particolare, sono riusciti ad individuare che la galassia stava espellendo quasi la metà del gas presente al suo interno per la formazione delle stelle. La rara osservazione è stata ripresa utilizzando l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA), un telescopio presente in Cile.

La luce di questa galassia, nota come ID2299, ha impiegato circa nove miliardi di anni per raggiungere la Terra. Ciò significa che gli astronomi stanno essenzialmente osservando come appariva quando l’universo aveva solo 4,5 miliardi di anni (ora ha circa 14 miliardi di anni).

La galassia ID2299 sta perdendo gas pari a 10.000 soli all’anno, il che sta riducendo il carburante di cui ha bisogno per formare stelle rimuovendo il 46% del gas freddo totale della galassia fino ad ora.

Ma la galassia con il gas rimanente sta ancora formando rapidamente nuove stelle a una velocità centinaia di volte maggiore della nostra Via Lattea. Questo significa che consumerà il resto del gas causandone effettivamente la morte in poche decine di milioni di anni. Un flash temporale nei tempi dell’universo.

La rappresentazione artistica mostra la galassia ID2299, il risultato di una collisione tra galassie, e parte del suo gas mentre viene espulso in una “coda mareale” come risultato della fusione. Nuove osservazioni fatte con ALMA, di cui l’ESO è un partner, hanno catturato le primissime fasi di questa espulsione, prima che il gas raggiungesse le grandi scale rappresentate nell’immagine. Crediti: ESO/M. Kornmesser

Credit https://diggita.com/v.php?id=1661430

I ricercatori intendono usare ancora il radiotelescopio ALMA per ottenere osservazioni a risoluzione ancora superiore e più profonde della galassia ID2299 per capire meglio le dinamiche del gas espulso. Gli studi sui meccanismi di evoluzione delle galassie stanno diventando sempre più sofisticati, in questo caso per capire cosa possa portare alla morte di una galassia.

Il nostro Universo è un libro di storia aperto dove è possibile vedere in tempo reale il passato delle galassie lontane, con il quale poi comprendere sempre più le leggi che lo governano.

Lo studio è stato pubblicato lunedì sulla rivista Nature Astronomy .

Commentato da Luigi Borghi.

Eccovi l’articolo.

http://www.coelum.com/news/una-galassia-che-muore

http://nataleseremia.com/2021/01/11/osservata-la-morte-di-una-lontana-galassia/

Segnali positivi per l’high tech italiano: andiamo sulla Luna!

Non possiamo certo dire che il 2021 sia cominciato bene: la pandemia sta galoppando e, tanto per non farci mancare nulla, siamo pure senza governo. Ma la notizia che 9 giorni fa l’Agenzia spaziale europea (ESA) ha firmato un contratto da quasi 296 milioni di euro con Thales Alenia Space per costruire un modulo europeo per la stazione spaziale Lunar Gateway della NASA, mi fa pensare che la nostra industria aerospaziale ha dimostrato ancora una volta di essere tra i leader a livello mondiale.

Una notizia attesa perché Thales Alenia Space aveva già annunciato il 14 ottobre di essere stata selezionata per costruire il modulo ESPRIT Gateway. 

Il 7 gennaio il contratto è stato finalizzato e firmato da entrambe le parti. 

Il progetto sarà guidato da Thales Alenia Space a Cannes, in Francia, con il supporto di Thales Alenia Space in Italia e nel Regno Unito.

Il modulo ESPRIT (Sistema europeo che fornisce rifornimento, infrastrutture e telecomunicazioni) fornirà capacità di comunicazione e rifornimento a Gateway, la stazione spaziale internazionale pianificata in orbita attorno alla luna e destinata a supportare missioni con equipaggio sulla superficie lunare e oltre. 

ESPRIT consisterà di due elementi principali (frecce gialle nell’immagine credit NASA), l’Halo Lunar Communication System (HLCS) e il modulo di rifornimento ESPRIT (ERM). 

HLCS fornirà alla stazione spaziale Gateway comunicazioni dati, voce e video. Il sistema è in fase di sviluppo accelerato e dovrebbe essere lanciato nel 2024 come parte dell’US Habitation and Logistics Outpost (HALO) costruito da Northrop Grumman Innovation Systems americana.

L’ERM consentirà alla stazione di ricevere propellenti dai veicoli spaziali in visita per mantenere la sua orbita attorno alla luna e per rifornire di carburante i veicoli in transito sulla superficie lunare. Inoltre, il modulo offrirà un piccolo spazio di lavoro pressurizzato per l’equipaggio della stazione dotato di ampie finestre che offrono una vista a 360 gradi. L’ERM dovrebbe essere consegnato nel 2026 con il suo lancio successivo un anno dopo. Oltre al modulo ESPRIT, Thales Alenia Space sarà anche responsabile del modulo International Habitation (I-HAB) che fornirà alloggi per l’equipaggio e porti di attracco per supportare i veicoli in transito. Il modulo è una collaborazione congiunta tra ESA, NASA e le agenzie spaziali di Canada e Giappone. Il lancio è previsto nel 2026.

Rendering della stazione lunare Gateway (Credit NASA)

Quindi, noi ci siamo! Saremo responsabili di una buona parte dell’hardware che costituirà il Gateway che a sua volta si integrerà con il programma della NASA “Artemis” che prevede di ritorno sulla Luna di astronauti entro in 2024.

Vi propongo un link di astronautinews dove potrete trovare maggiori dettagli.

Commentato da Luigi Borghi.

Lo spessore dei ghiacci di Ganimede

Uno studio italiano su Ganimede riporta una stima di 105-130Km di spessore di ghiaccio che si trova sopra l’oceano di acqua liquida sottostante. Sono stati analizzati migliaia di solchi (grooves) in 4 regioni equatoriali di Ganimede: Uruk Sulcus, Babylon Sulci, Phrygia Sulcus e Mysia Sulci. Tutto questo in attesa della missione europea JUICE che partira’ l’anno prossimo verso le lune di Giove.

Rappresentazione ipotetica della struttura interna di Ganimede.
Source: https://scitechdaily.com/jupiters-moon-ganymede-may-oceans-ice-stacked-multiple-layers/

E’ dagli anni ’70 del secolo scorso che gli scienziati sospettano di un oceano sotto la superficie ghiacciata di Ganimede e di altri corpi del Sistema Solare esterno (ad esempio Europa, Callisto, ma anche Titano, Encelado, e forse Plutone, Rhea, Titania, Oberon, Tritone, Sedna, e altri ancora) . Ma e’ con le missioni Voyager e soprattutto con la missione Galileo che arrivano le evidenze per 3 dei 4 satelliti medicei di Giove. Il campo magnetico misurato in prossimita’ di Ganimede (come per Europa e Callisto), non puo’ essere generato con un interno del corpo fatto esclusivamente di ghiaccio solido e roccia. Suggerisce invece la presenza di una gigantesca riserva di acqua liquida conduttiva (quindi possibilmente “salata”). Stiamo parlando di quantita’ di acqua liquida enormi: superiore a quella di tutti gli oceani terrestri messi assieme!

Il punto di fusione dei ghiacci e’ significativamente ridotto dalla presenza di sali e/o metano e ammoniaca, che sono entrambi abbondanti in queste parti del Sistema Solare. Un’analisi pubblicata nel 2014, frutto dei dati della sonda Galileo, suggerisce la presenza di diversi strati alternati di ghiaccio e acqua liquida. Lo strato di acqua inferiore sarebbe in contatto col substrato roccioso, cosa importante per la eventuale presenza di condizioni favorevoli all’insorgere della vita. Ulteriori rilevazioni fatte con il telescopio spaziale Hubble (HST) su come si muovono le aurore (frutto del campo magnetico) hanno confermato la presenza di oceani nell’interno di Ganimede, che potrebbero essere i piu’ vasti, in volume, dell’intero Sistema Solare. E ci sono congetture sulla potenziale abitabilita’ di tali oceani da parte della vita.

Proiezioni ortografiche di Ganimede. Le faglie sono in arancione.
Fonte: A. Lucchetti et al., Planetary and Space Science, 2020

Ora, la novita’ e’ un articolo pubblicato pochissimi giorni fa, il 4 Gennaio 2021 su planetary and Space Science, che riporta i risultati di una ricerca svolta dal team guidato da Alice Lucchetti, dell’INAF di Padova. Hanno analizzato migliaia di fratture nei ghiacci di Ganimede (letteralmente “into the groove”, come diceva Madonna) in 4 regioni predefinite del satellite di Giove, e hanno calcolato uno spessore della crosta del primo strato di ghiaccio, che va da 105Km a 130Km. Sotto ci sarebbe uno strato composto da acqua liquida, poi forse altri strati alternati di neve di ghiaccio III, acqua, ghiaccio V, acqua, ghiaccio VI, acqua, roccia e infine il nucleo di ferro e nickel, che spiegherebbe il campo magnetico.

Da analisi precedenti si e’ ipotizzata l’interfaccia piu’ profonda acqua-roccia a circa 800Km di profondita’.

Il ghiaccio del primo strato (quello di 105-130Km) e’ ghiaccio di Tipo I. ovvero quello che usiamo per i cocktails e che copre Artide e Antartide sulla Terra, a pressione atmosferica (100kPa). E’ il meno denso di tutti, ed e’, com’e’ noto, piu’ leggero dell’acqua. Ma alle tremende pressioni che ci sono nelle profondita’ di Ganimede, le strutture cristalline del ghiaccio si fanno piu’ compatte, diventando piu’ pesanti dell’acqua, fino ad arrivare al ghiaccio VI che si forma attorno a 1GPa di pressione. (Sono possibili, non su Ganimede, anche forme di ghiaccio ancora piu’ compatto: fino a ghiaccio XI a 1TPa di pressione)

Sulla superficie di Ganimede sono state contate 14707 fratture (grroves), e il team INAF ne ha analizzate 1068 nella regione Uruk Sulcus, 882 in Babylon Sulci, 678 in Phrygia Sulcus, e 987 in Mysia Sulci.

Le fratture piu’ corte (inferiori ai 200Km) dovrebbero essere quelle solo superficiali, mentre qulle piu’ lunghe dovrebbero essere quelle che arrivano fino all’acqua sottostante.

Sono state usate tecniche di analisi statistica sviluppate e validate sul nostro pianeta, per ottenere la massima profondita’ alla quale le fratture si propagano. Oltre alla stima dello spessore del ghiaccio, e’ stato anche trovato che le fratture che spaccano il primo strato di ghiaccio in profondita’ sono quelle che si trovano fra le zone scure e quelle chiare di Ganimede. La stratificazione di Ganimede provoca anche fenomeni strani, come le nevicate verso l’alto, neve che potrebbe fondere prima di raggiungere lo strato di ghiaccio sovrastante, lasciando uno strato intermedio di neve flottante semi-sciolta. Questa struttura a strati di un sandwich mi ricorda i shell-worlds del romanzo di fantascienza “Matter” di Iain M. Banks (gli stessi romanzi da cui Elon Musk ha preso i nomi della piattaforme dei Falcon 9, come “Of course I still love you”, and “Just read the instructions”).

Rappresentazione della sonda europea JUICE con i pannelli solari aperti.
Fonte: https://sci.esa.int/web/juice

Ma torniamo alla scienza. Questi risultati di INAF sono importanti per la prossima missione europea JUICE (JUpiter ICy moons Explorer), ovvero la prima missione ESA in grande scala, parte del Programma 2015-2025. Verra’ lanciata il prossimo anno, arrivera’ in orbita attorno a Giove nel 2029, e poi spendera’ almeno 3 anni facendo dettagliate osservazioni dei 3 satelliti Ganimede, Callisto, Europa.

La sonda JUICE in assemblaggio a Friedrichshafen in Germania.
Fonte: https://sci.esa.int/web/juice/-/-6-start-of-assembly-and-integration-for-juice

La sonda e’ ad uno stadio avanzato di sviluppo, con l’assemblaggio iniziato a fine 2019 e continuato durante tutto il 2020, nonostante la pandemia, presso Friedrichshafen in Germania. A Ottobre 2020 sono anche arrivati i ben 10 giganteschi pannelli solari. La sonda necessita infatti di una grande superficie di pannelli a causa dell’enorme distanza dal Sole. Le sonde Voyager 1, 2, Pioneer 10, 11 e la New Horizons, ad esempio, non avevano pannelli siccome potevano contare sull’affidabile e duraturo RTG (Radioisotope Thermoelectric Generator) al Plutonio, mentre la sonda americana Juno, tuttora attiva in orbita sempre attorno a Giove, ha anch’essa giganteschi pannelli solari, siccome la singola partita di RTG fabbricati decenni fa si era esaurita (ma niente paura: ora ne sono stati fabbricati altri, ad esempio per le missioni marziane Curiosity e Perseverance, grazie ad altro Plutonio 238 procurato dal US Department of Defense).

Arrivano i primi strumenti da montare sulla sonda.
Fonte: https://sci.esa.int/web/juice/-/-6-start-of-assembly-and-integration-for-juice

Nelle prossime settimane la sonda JUICE verra’ portata al ESTEC (ESA Space Technology & Research Centre) a Noordwijk nei Paesi Bassi, dove verra’ testata e calibrata. In parallelo e’ in corso l’engineering model testing a Tolosa in Francia e comandato dall’ESOC situato a Darmstadt, Germania. Alcuni strumenti sono forniti dalla NASA, come il Ultraviolet Spectrograph (UVS), che e’ appena arrivato in Germania dalla SRI di San Antonio, Texas. Un vero e proprio international effort!

Davide Borghi

Bibliografia:

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0032063320303536

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0019103506002016

https://sci.esa.int/web/juice

Trump firma la direttiva sulla politica spaziale-6 (SPD-6) sull’energia nucleare e la propulsione spaziale.

Non c’è dubbio che il presidente USA uscente, Donald Trump, voglia lasciare il segno sulla politica spaziale americana. È di dieci giorni fa la notizia che Trump ha firmato un decreto (lui non fa i DPCM come in Italia, ma i DPR), il SPD-6, con cui lancia ufficialmente il percorso della NASA per arrivare ad avere entro fine decennio la capacità di alimentare le future colonie marziane e lunari con generatori elettrici ad energia nucleare a fissione e contemporaneamente aprire la strada alla propulsione nucleare, ed è quest’ultima la vera svolta!

Fino ad oggi le sonde nello spazio profondo ed i recenti rover marziani sono stati alimentati ad energia nucleare ma solo attraverso il calore del decadimento radioattivo del plutonio, gli RTG (Radioisotope thermoelectric generator). Fino ad ora non è mai stato reso esecutivo nessun tipo di propulsione nucleare, anche se sono stati realizzati prototipi fin dagli inizi degli anni ’60 del secolo scorso.

Ora con il programma Kilopower di cui abbiamo già parlato e che si trova già in fase sperimentale presso i laboratori di Los Alamos, si volta pagina decisamente.

Illustrazione artistica di un sistema di alimentazione a fissione sulla superficie di Marte utilizzando cinque unità da 10 kilowatt.

(Immagine: © NASA)

Potete trovare un approfondimento su questo argomentonell’articolo: “Kilopower, il generatore nucleare della NASA”, che trovate a pagina 21 del numero 37 (giugno 2018) nella nostra rivista “Il C.O.S.Mo. News” disponibile gratuitamente su questo sito qui:

(https://ilcosmo.net/wp-content/uploads/2020/05/Il-Cosmo-News-37-2018-10_02.pdf .

Il limite degli RTG era nella potenza massima che arrivava ad essere di poche centinaia di Watt, con i Kilopower si rende disponibile una “famiglia” scalabile di generatori che vanno da pochi KW a centinaia di KW. Ciò che serve per alimentare per decenni una colonia lunare o marziana.

 Questi dispositivi convertono l’energia nucleare di un reattore a fissione con uranio poco arricchito in calore per il riscaldamento delle postazioni abitative e per la strumentazione ed energia elettrica per il fabbisogno delle colonie.

Esistono già da mezzo secolo i generatori elettrici alimentati da mini-reattori nucleari a fissione. Sono da tempo installati su sottomarini, portaerei, rompighiaccio, ecc., da parte di molti paesi come USA, Russia, Cina, Europa. Ma su una nave, raffreddare l’enorme quantità di calore di “scarto” emesso da tale tecnologia è decisamente facile: si usa l’acqua dell’oceano. Su una nave spaziale o sulla Luna o su Marte le cose sono molto diverse.

Ecco che con il Kilopower si cambia proprio la tecnologia. Anziché una conversione calore-vapore-turbina-generatore, come nelle centrali installate sulle portaerei, si è passati ad una soluzione calore, fluido-Stirling-generatore.

Non pensate al classico motore Stirling con il pistone che va su e giù in un cilindro. L’usura lo distruggerebbe nel giro di pochi anni. Lo Stirling usato dalla NASA ha sì un pistone che scorre in un cilindro ma non tocca le pareti, quindi non c’è usura. Può funzione per anni senza manutenzione.

Ciò che invece produrrà una svolta epocale sarà la propulsione nucleare.

Ecco un frame del filmato che troverete nell’articolo di cui vi parlo.

Nel SPD-6, all’interno dello space nuclear power and propulsion SNPP, è previsto anche la propulsione e questo cambierà tutto!

Ne parleremo a tempo debito, quando avremo a disposizioni maggiori dettagli, per ora vi posso dire che ho in cantiere un articolo sul numero 48 che uscirà a fine febbraio e pure una pillola, la nona della serie volare, che uscirà su YouTube a metà gennaio.

Per ora vi consiglio questo articolo tratto da Space.com

Commentato e tradotto da Luigi Borghi

Ecco l’articolo:

https://www.space.com/trump-space-policy-nuclear-power-propulsion

Trump firma la direttiva sulla politica spaziale-6 (SPD-6) sull’energia nucleare e la propulsione spaziale. Di Mike Wall 16/12/2020.

Uno degli obiettivi stabiliti in SPD-6 è il test di un sistema di alimentazione a fissione sulla luna entro la metà e la fine degli anni ’20.

L’energia nucleare rappresenterà una parte importante degli sforzi di esplorazione spaziale degli Stati Uniti in futuro, afferma un nuovo documento politico.

Il presidente Donald Trump mercoledì (16 dicembre) ha emesso la direttiva sulla politica spaziale-6 (SPD-6), che definisce una strategia nazionale per l’uso responsabile ed efficace dei sistemi di energia e propulsione nucleare spaziale (space nuclear power and propulsion SNPP).

Mercoledì scorso Scott Pacevice assistente del presidente e segretario esecutivo del National Space Council ha dichiarato:“L’energia nucleare e la propulsione spaziale sono una tecnologia fondamentale per le missioni nello spazio profondo americane su Marte e oltre. Gli Stati Uniti intendono rimanere il leader tra le nazioni che viaggiano nello spazio, applicando la tecnologia dell’energia nucleare in modo sicuro, protetto e sostenibile nello spazio”.

I sistemi nucleari sono stati parti importanti del portafoglio di esplorazione della nazione per decenni. Ad esempio, molti degli esploratori robotici di più alto profilo della NASA, comprese le sonde interplanetarie Voyager 1 e Voyager 2, la sonda New Horizons nella missione su Plutone e il rover Curiosity Mars, hanno ricavato la loro energia dai generatori termoelettrici a radioisotopi (RTG), che convertono in elettricità il calore generato dal decadimento radioattivo del plutonio-238.

Un uso più esteso dei sistemi SNPP potrebbe aiutare tale portafoglio ad espandersi notevolmente nel prossimo futuro. Ad esempio, la NASA e il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti stanno lavorando insieme a un progetto di reattore a fissione chiamato Kilopower (https://www.space.com/nuclear-reactor-for-mars-outpost-2022.html), che potrebbe fornire il supporto essenziale per gli avamposti con equipaggio sulla Luna e su Marte. 

E l’amministratore della NASA Jim Bridenstine ha salutato la propulsione termica nucleare, che sfrutterebbe il calore emesso dalle reazioni di fissione per accelerare i propellenti a velocità incredibili, come potenziale punto di svolta per gli sforzi di esplorazione dello spazio profondo dell’agenzia.

SPD-6 rafforza e formalizza tale impegno nei confronti dei sistemi SNPP. Ad esempio, il documento, che puoi leggere qui , afferma che gli Stati Uniti dovrebbero sviluppare, entro la metà del 2020, capacità di produzione e lavorazione di carburante sufficienti a supportare una varietà di sistemi spaziali nucleari, dagli RTG alla propulsione nucleare termica e nucleare.

Un altro obiettivo stabilito da SPD-6 è la dimostrazione di un “sistema di alimentazione a fissione sulla superficie della luna che è scalabile fino a un intervallo di potenza di 40 kilowatt elettrici (kWe) e superiore per supportare una presenza lunare sostenuta e l’esplorazione di Marte. “Se possibile, ciò dovrebbe avvenire entro la metà e la fine del 2020” afferma il documento.

SPD-6 è la sesta direttiva sulla politica spaziale firmata dal presidente Trump, come suggerisce il nome. 

SPD-1 ha ufficialmente incaricato la NASA di riportare gli astronauti sulla luna per aiutare a prepararsi per le missioni su Marte con equipaggio; 

SPD-2 ha alleggerito i regolamenti sull’industria dei voli spaziali privati; 

SPD-3 mirava ad aiutare con la gestione del traffico spaziale; 

SPD-4 ha ordinato al Dipartimento della Difesa di istituire la US Space Force;

SPD-5 ​​hanno definito una politica di sicurezza informatica per i sistemi spaziali statunitensi.

Come indica l’elenco, il presidente Trump è stato piuttosto attivo nel dominio della politica spaziale. Ha anche resuscitato il National Space Council, che era rimasto inattivo dall’inizio degli anni ’90. 

E proprio la scorsa settimana, ha emesso una nuova politica spaziale nazionale , che mira a rafforzare la sicurezza nazionale e la leadership americana nello spazio, tra gli altri obiettivi.

Mike Wall è l’autore di ” Out There ” (Grand Central Publishing, 2018; illustrato da Karl Tate), un libro sulla ricerca della vita aliena.

Il test della starship SN8 di SpaceX: fallimento o successo?

Dopo un paio di serate passate davanti al monitor a seguire i lunghissimi countdown della Space X per la partenza del suo prototipo di navetta spaziale, la SN8, finalmente mercoledì sera 9/12 alle 23:45 è partito il test. Una grande soddisfazione dopo una grande attesa.

Non avrei scritto questo commento se, il giorno dopo, non fossero apparsi articoli e strafalcioni che, ancora una volta, hanno dimostrato quanto lontano siano certi sedicenti giornalisti dal rendersi conto di ciò che stanno comunicando.

Di seguito un paio di esempi:

Rep.repubblica.it: “il fallimento della missione Space X su Marte di Elon Musk, con il razzo da oltre 200 milioni di dollari esploso”.

Radio Monte Carlo: “il razzo da miliardi di dollari è esploso poco dopo la partenza e solo Elon Musk pensa che sia un successo”.

Cosa può pensare la gente che legge o ascolta questi commenti: un fallimento! Un inutile spreco di soldi.

Invece, pensate un po’, è esattamente il contrario! È stato un successo! Come mai questa abissale differenza?

Semplice: quando non si ha idea di cosa ci si aspetta da un evento, non si ha neanche un minimo di competenza in materia e magari pure con un minimo di preconcetti su una certa persona o iniziativa, ecco che avviene il miracolo: si confondono fischi per fiaschi.

La Starship SN8 è una novità tecnologia assoluta in termini di motori, struttura, tecnica di rientro, e controllo di planata, che è partita da una rampa nuova, Boca Cica, Texas, mai usata prima per questo scopo, con i propri motori e con una gravità (quella terrestre) che mai dovrà affrontare durante i decolli nelle missioni per le quali è stata studita (decollerà solo da Marte o dalla Luna. Mai dalla Terra dove lo farà solo sopra ad un razzo e non con i suoi motori).

La Starship SN8 sulla rampa di lancio a Boca Cica. Sulla destra il primo prototipo lo “scaldabagno”.

Il costruttore, la SpaceX, attraverso il suo fondatore Elon Musk, aveva dichiarato che la navetta sarebbe stata molto probabilmente sacrificata per ottenere quei dati necessari a continuare il suo programma. Un programma che prevede alcune cosette come: mandare un equipaggio sulla Luna, colonizzare Marte, creare una linea veloce di trasporto intercontinentale, ecc.

Non è il programma degli Stati Uniti, della Cina, della Russia o dell’Europa, ma di una ditta privata chiamata SpaceX.

SN8 è ormai distrutto, ma a Boca Chica i lavori sui prototipi continuano ininterrotti, e sono già arrivati alle fasi di produzione di SN15. Il prototipo SN9 appare ormai praticamente pronto, e siamo certi che nel giro di qualche settimana potremo assistere ad un nuovo tentativo di “salto”, che speriamo sia coronato da pieno successo.

Proviamo ad esaminare tutti gli obiettivi di questo test per capire cosa è andato bene e cosa è fallito. Gli obiettivi erano:

  1. decollare con successo dalla rampa di Boca Chica spinto da 3 motori Raptor. Obiettivo raggiunto!
  2. arrivare alla quota di 12,5 chilometri: Obiettivo raggiunto.
  3. effettuare la manovra “backflip“, cioè perdere in modo controllato l’assetto verticale, spegnere i Raptor e disporsi in assetto planato con controllo aerodinamico di alette e sistema di razzetti ausiliari.  Obiettivo raggiunto.  
  4. recuperare l’assetto verticale. Obiettivo raggiunto
  5. riaccendere il/i motori Raptor e compensare fino ad annullare il movimento orizzontale indotto dal volo planato. Obiettivo raggiunto.  
  6. ritornare esattamente nella zona di atterraggio decelerando in assetto verticale. Obiettivo raggiunto
  7. atterrare lentamente sulla piazzola predisposta. Obiettivo fallito.

Starship 9 sec. dopo la partenza da Boca Cica. Texas

Se avessi sbagliato un quesito su sette, il mio vecchio prof. di elettronica, mi avrebbe premiato con almeno un 8.

Quindi non è stato un fallimento!

Starship durante il volo planato.

Non era una missione su Marte, ma sulla Terra e doveva alzarsi dal suolo di soli 12-15 km. Non sono stati buttati 200 milioni o addirittura miliardi di dollari perché sono test distruttivi previsti. Non è vero che solo Elon Musk pensa sia stato un successo perché lo penso anch’io e la maggior parte di quei 350.000 che, in diretta, stavano seguendo con competenza il test.

Questo test è da manuale ed è il frutto del gran lavoro degli ingegneri dell’azienda di Musk. Una azienda che ha dimostrato di essere all’avanguardia nel mondo e che ha raccolto il meglio dei giovani ingegneri americani che hanno voglia di misurarsi e competere su questo tipo di mercato.

Magari avessimo anche noi la possibilità di fare simili “fallimenti”.

SN8 è atterrato troppo duramente ed è esploso, ma il punto è che lo ha fatto esattamente sulla piazzola di atterraggio. Questo testimonia la già avanzata capacità di SpaceX di controllare il volo di un razzo completamente nuovo, che ha sì ereditato l’esperienza maturata con il software di controllo dal veterano Falcon 9, ma che ha una fase di volo orizzontale del tutto inedita e innovativa.

In ogni caso, a dispetto della pirotecnica conclusione, quello raggiunto oggi da SpaceX rimane un primo, storico successo. Pochi si sarebbero aspettati che già al primo volo di un prototipo si sarebbero raggiunti tanti traguardi.

Commentato da Luigi Borghi.

Vi consiglio questo articolo:

http://www.coelum.com/news/spacex-starship-sn8-balzo-perfetto-e-atterraggio-col-botto

Dal transistor grosso come un grano di mais a quello grosso come pochi atomi..

Un ragazzo che oggi esce dalla università, da un istituto tecnico o da un liceo, non rimarrà stupito da una notizia del genere. Ma uno come me che i transistor li ha maneggiati uno ad uno, prima quelli al germanio (un po’ complicato da pilotare) e poi quelli al silicio, rimane a bocca aperta.

Come progettista hardware ho vissuto tutto il cambiamento: dalle valvole termoioniche degli anni 50, ai transistor degli anni 60, poi i circuiti integrati degli anni 70, i microprocessori degli anni 80 per terminare con i microcontrollori degli anni 90 del secolo scorso. Ho finito con un Arduino!

Da sempre, nella progettazione di automazione e computing, c’è stato il problema della memoria ritentiva.

La memoria ritentiva ideale deve essere: velocissima, ad accesso casuale (cioè una RAM), piccolissima, consumi prossimi allo zero e, naturalmente, ricordarsi di ciò che ha in testa anche dopo una perdita di alimentazione.

Questi erano i miei transistor negli anni Sessanta. (… ma non si ricordavano di nulla!)

(Prodotti dalla Texas Instruments, si vede il profilo dello stato USA sul contenitore)

Di memorie ne sono state inventate tantissime, basate su diverse tecnologie, ma tutte quante dovevano sacrificare una o più di queste caratteristiche. Ai tempi del progetto Apollo (metà anni Sessanta), la soluzione fu la memoria a nuclei in ferrite (core) che era veloce (per gli standard di allora) era ad accesso casuale, ma non era di certo piccola. I singoli bit (gli anellini di ferrite che stazionavano all’incrocio dei cavi di indirizzo e di “sense”) si potevano vedere ad occhio nudo. Si è passato poi alle RAM CMOS che avevano tutte queste caratteristiche (anche se molto più voluminose delle DRAM) ma mantenevano i dati solo perché avevano una batteria che gli garantiva l’alimentazione.

Finita la batteria, addio memoria.

Oggi invece la più soddisfacente soluzione è la combinazione Flash memory (che hanno sostituito gli Hard Disk) con le DRAM. Le prime ritengono i dati anche in mancanza di tensione (onestamente non si sa ancora bene per quanto tempo, ma probabilmente più di un decennio), ma li restituiscono non in modo random ma seriale. Insomma, ci vuole qualche decina di secondi di pazienza. Poi questi dati vengono memorizzati nella DRAM e a questo punto si va a scheggia! C’è da aggiungere che le Flash memory non “godono” quando le scrivi e con l’andar del tempo ti piantano in asso. (mediamente su un PC, meno di dieci anni)

L’articolo che vi propongo oggi invece vi parla dei risultati di una ricerca su un principio che già si conosceva da tempo e cioè la Commutazione resistiva non volatile (NVRS).

Queta tecnologia, nota anche come memristor, consiste sostanzialmente in un componente elettronico passivo a due terminali (come una resistenza, un condensatore o una induttanza), ma che può cambiare la sua resistenza interna e ricordarsi di averlo fatto!

Sebbene il memristore fosse stato teorizzato e descritto sin dal 1971 da parte di Leon Chua dell’Università di Berkeley, in un articolo pubblicato su IEEE Transactions on Circuit Theory, è rimasto un dispositivo teorico fino a pochi anni fa.

Si tratta di un bipolo in cui una variazione di carica elettrica, dà luogo ad una variazione di flusso magnetico e quindi ad una tensione, che dovrebbe localizzarsi ai capi del componente. (Fonte Wikipedia).

Quando la tensione viene fornita attraverso gli elettrodi di platino, gli atomi di Tio2 si diffonderanno a destra o a sinistra nel materiale in base alla polarità della tensione che rende più sottile o più spesso, quindi dà una trasformazione in resistenza.

Il memristore ha la proprietà di “ricordare” lo stato elettronico e di rappresentarlo mediante segnali analogici. Un circuito di questo tipo consentirebbe di realizzare calcolatori con accensione istantanea, senza la necessità di ricaricare il sistema operativo a ogni avvio.

Il circuito, infatti, conserva l’informazione anche in assenza di corrente elettrica, quando il calcolatore è spento.

La capacità di memorizzare segnali analogici anche nelle memorie allo stato solido non volatili consentirebbe di memorizzare ed elaborare una mole di dati molto maggiore di quella trattata con i circuiti digitali, in grado di rappresentare solo due stati (0 ed 1).

Il memristore apre a una nuova generazione di memorie e di potenze di calcolo.

Promette una capacità di circa 25 terabit per centimetro quadrato. Questa è una densità di memoria 100 volte superiore per strato rispetto ai dispositivi di memoria flash disponibili in commercio.

La fine delle flash memory e dei dischi rigidi.

Nell’ultimo decennio si sono avute notevoli progressi nei materiali di commutazione resistiva non volatili come gli ossidi metallici e gli elettroliti solidi. Si è creduto a lungo che le correnti di perdita avrebbero impedito l’osservazione di questo fenomeno per strati isolanti nanometrici-sottili. Tuttavia, la recente scoperta della commutazione resistiva non volatile in monostrati bidimensionali di dicalcogenide metallica di transizione e nitruro di boro esagonale le strutture sandwich (note anche come atomristors) hanno confutato questa convinzione e aggiunto una nuova dimensione dei materiali grazie ai vantaggi del ridimensionamento delle dimensioni.

L’imaging atomistico e la spettroscopia rivelano che la sostituzione del metallo in un posto vacante di zolfo si traduce in un cambiamento non volatile nella resistenza, che è confermato da studi computazionali su strutture di difetti e stati elettronici.

Questi risultati forniscono una comprensione atomistica della commutazione non volatile e aprono una nuova direzione nell’ingegneria dei difetti di precisione, fino a un singolo difetto, verso il raggiungimento del più piccolo memristor per applicazioni in memoria ultra-densa, calcolo neuromorfico e sistemi di comunicazione a radiofrequenza.

Commentato da Luigi Borghi

Eccovi l’articolo tradotto.

https://www.sciencedaily.com/releases/2020/11/201123161014.htm https://qnewshub.com/technology/worlds-smallest-atom-memory-unit-created/

È stata creata la più piccola unità di memoria retentiva atomica al mondo.

Da Staff Writers Austin TX. (SPX) 27 novembre 2020.

Chip più veloci, più piccoli, più intelligenti e più efficienti dal punto di vista energetico per tutto, dall’elettronica di consumo ai big data, all’informatica ispirata al cervello potrebbero presto essere in arrivo dopo che gli ingegneri dell’Università del Texas ad Austin hanno creato il dispositivo di memoria più piccolo di sempre.

E nel processo, hanno capito la dinamica fisica che sblocca dense capacità di archiviazione della memoria per questi piccoli dispositivi.

La ricerca pubblicata di recente su Nature Nanotechnology si basa su una scoperta di due anni fa, quando i ricercatori hanno creato quello che allora era il dispositivo di archiviazione della memoria più sottile. In questo nuovo lavoro, i ricercatori hanno ridotto ulteriormente le dimensioni, riducendo l’area della sezione trasversale a un solo nanometro quadrato.

Ottenere un controllo sulla fisica che impacchetta la capacità di archiviazione della memoria densa in questi dispositivi ha permesso di renderli molto più piccoli. Difetti o buchi nel materiale forniscono la chiave per sbloccare la capacità di archiviazione della memoria ad alta densità.

“Quando un singolo atomo metallico aggiuntivo entra in quel buco su scala nanometrica e lo riempie, conferisce parte della sua conduttività nel materiale, e questo porta a un cambiamento o a un effetto memoria”, ha detto Deji Akinwande, professore presso il Department of Electrical and Computer Engineering.

Sebbene abbiano usato il disolfuro di molibdeno – noto anche come MoS2 – come nanomateriale primario nel loro studio, i ricercatori pensano che la scoperta potrebbe applicarsi a centinaia di materiali atomicamente sottili correlati.

La corsa per realizzare chip e componenti più piccoli è tutta legata alla potenza ed alla convenienza. Con processori più piccoli, è possibile creare computer e telefoni più compatti. Ma ridurre i chip riduce anche il loro fabbisogno energetico e aumenta la capacità, il che significa dispositivi più veloci e intelligenti che richiedono meno energia per funzionare.

“I risultati ottenuti in questo lavoro aprono la strada allo sviluppo di applicazioni di generazione futura che interessano il Dipartimento della Difesa, come lo storage ultra-denso, i sistemi di calcolo neuromorfico, i sistemi di comunicazione a radiofrequenza e altro ancora”, ha dichiarato Pani Varanasi, program manager del U.S. Army Research Office, che ha finanziato la ricerca.

Il dispositivo originale – soprannominato dal team di ricerca “atomristor” – era all’epoca il dispositivo di memorizzazione più sottile mai registrato, con un singolo strato atomico di spessore. Ma ridurre un dispositivo di memoria non significa solo renderlo più sottile, ma anche costruirlo con un’area di sezione trasversale più piccola.

“Il Santo Graal scientifico per il ridimensionamento sta scendendo a un livello in cui un singolo atomo controlla la funzione di memoria, e questo è ciò che abbiamo realizzato nel nuovo studio”, ha detto Akinwande.

Il dispositivo di Akinwande rientra nella categoria dei memristors, una popolare area di ricerca sulla memoria, incentrata sui componenti elettrici con la capacità di modificare la resistenza tra i suoi due terminali senza la necessità di un terzo terminale nel mezzo noto come gate. Ciò significa che possono essere più piccoli dei dispositivi di memoria di oggi e vantare una maggiore capacità di archiviazione. Questa versione del memristor – sviluppata utilizzando le strutture avanzate dell’Oak Ridge National Laboratory – promette una capacità di circa 25 terabit per centimetro quadrato. Questa è una densità di memoria 100 volte superiore per strato rispetto ai dispositivi di memoria flash disponibili in commercio.

La NASA è di nuovo in contatto con la sonda Voyager 2.

Dov’è la notizia? Voyager 1 è anche più lontano! Cosa c’è di tanto eclatante?

La notizia sta nel fatto che riuscire a dialogare via radio con un oggetto che si trova a 18,8 miliardi di chilometri, cioè circa 20 ore luce da noi, rappresenta una impresa. Non tanto per il tempo che ci vuole per capire se il “comando” radio è arrivato bene oppure no, che consiste in quasi due giorni (34 ore complessive) di ansia e di attesa dall’invio del comando alla ricezione della risposta, ma per la quasi nulla potenza del segnale ricevuto che si trova al limite del suo rapporto con il disturbo di fondo.

Vediamo di capire meglio. Le comunicazioni sono fornite dalla sonda tramite l’antenna a parabola di oltre 3,66 metri ad alto guadagno e con un’antenna a basso guadagno per il backup. L’antenna ad alto guadagno supporta la telemetria downlink sia in banda X (da 7 a 12,5 GHz) che in banda S (2 – 4 GHz). Voyager è stata la prima navicella spaziale a utilizzare la banda X come frequenza di collegamento telemetrica primaria. I dati possono essere archiviati per la successiva trasmissione alla Terra tramite l’uso di un registratore digitale a bordo. L’energia a bordo del Voyager non manca. La sonda è partita dalla Terra nel 1977 con 470 watt di energia elettrica a 30 Volt in corrente continua, fornita da tre generatori nucleari a radioisotopi (RTG). Col trascorrere del tempo questi generatori perdono gradualmente efficacia, dovuto appunto al decadimento del plutonio, tanto che si calcola che entro il 2025 entrambe le sonde Voyager non saranno più in grado di funzionare per insufficienza energetica.

Qui sotto lo schema di un Voyager.

Nel 1997, dopo 20 anni di utilizzo, gli RTG fornivano ancora 335 W. Questa energia residua, che potrebbe essere oggi, 2020, ancora di poco inferiore ai 200 W elettrici (poi vi sono in più anche i Watt termici che servono a mantenere a temperatura adeguata di funzionamento le apparecchiature), non sono dedicati solo alla comunicazione. I trasmettitori a microonde delle due Voyager hanno una potenza di circa 25 watt e li trasmettono dall’antenna parabolica di circa tre metri di diametro con un guadagno molto elevato (circa 45 db).

L’antenna di circa 3,66 metri quando era ancora a terra in assemblaggio.

A terra le antenne Deep Space Network o DSN sono molto più grandi (paraboliche da 70 metri di diametro) e il guadagno ancora più elevato. Di conseguenza si riesce a “sentire” i deboli segnali della sonda nonostante i miliardi di km che ci separano.

I segnali ricevuti, comunque, sono estremamente deboli, parliamo dell’ordine degli attowatt, ovvero miliardesimi di miliardesimi di watt!

Nel DSN sono presenti degli amplificatori a basso rumore molto costosi che consentono di portare questi segnali a livelli utilizzabili.

Per darvi una idea, molto più ottimistica, di quanto possa essere l’attenuazione vi propongo questo esercizio mentale: supponiamo che in una notte serena andate in mezzo ad un campo buio ed accendete verso il cielo un faretto di luce da 25W. Una torcia professionale è in grado di fare questo. La visione ottimistica sta nel fatto che la torcia riesce a focalizzare molto meglio la luce piuttosto che una parabola con un fascio portante da 10 GHz che ha un “cono” di emissione con un angolo più aperto.

Ma trascuriamo questo! Ora pensate a cosa può vedere di quella luce un aereo di linea a 10 km: molto poco, ma facendo attenzione si può vedere, forse, anche ad occhio nudo,

Ora spostatevi sulla Luna: la vedreste ancora da 400.000 km? Ad occhio nudo no, ma con un buon telescopio ottico, sapendo dove si trova la torcia, sì la potreste anche vedere!

Bene, ora dovete solo allontanarvi di 19 miliardi di km e di quella luce rimarrebbe quasi ZERO!

Questa è la notizia!

IDSN di Canberra.  Gli ingegneri conducono aggiornamenti e riparazioni critiche all’antenna radio Deep Space Network Station 43, larga 70 metri (230 piedi) a Canberra, in Australia. In questa clip, uno dei coni di alimentazione bianchi dell’antenna (che ospitano parti dei ricevitori dell’antenna) viene spostato da una gru. Crediti: CSIRO.

l Deep Space Network è costituito da strutture di antenne radio distribuite equamente in tutto il mondo a Canberra; Goldstone, California; e Madrid, Spagna. Il posizionamento delle tre strutture assicura che quasi tutti i veicoli spaziali con una linea di vista verso la Terra possano comunicare con almeno una delle strutture in qualsiasi momento. Voyager 2 però è la rara eccezione. Per fare un sorvolo ravvicinato della luna di Nettuno Tritone nel 1989, la sonda ha sorvolato il polo nord del pianeta. 

Quella traiettoria l’ha deviata verso sud rispetto al piano dei pianeti, e da allora si è diretta in quella direzione. Ora a più 18,8 miliardi di chilometri dalla Terra, ma è così lontano a sud che non ha una linea di vista con tutte le antenne radio nell’emisfero settentrionale.

E questa è un’altra notizia!

Ne approfitto per ricordare a coloro che non erano, come me, davanti al televisore durante quelle eccezionali avventure dei due Voyager, che su entrambi, su uno dei lati del telaio (BUS) è stato montato un disco di rame placcato in oro da 12 pollici. Il disco ha registrato su di esso suoni e immagini della Terra progettati per rappresentare la diversità della vita e della cultura del pianeta. Ogni disco è racchiuso in una custodia protettiva in alluminio insieme a una cartuccia e ad un ago. Le istruzioni che spiegano da dove proviene la navicella spaziale e come riprodurre il disco sono incise sul contenitore (giacca). Sono istruzione simboliche.

Elettroliticamente, su un’area di 2 cm sul coperchio c’è anche una fonte ultra-pura di uranio-238 (con una radioattività di circa 0,26 nanocuries e un’emivita di 4,51 miliardi di anni), consentendo agli eventuali alieni che lo troveranno la determinazione del tempo trascorso dal lancio misurando la quantità di elementi radioattivi U238 restanti. Le 115 immagini sul disco sono state codificate in forma analogica. Le selezioni dei suoni (inclusi i saluti in 55 lingue, 35 suoni, naturali e artificiali, e porzioni di 27 brani musicali) sono progettate per la riproduzione a 1000 giri / min.

Vi propongo un articolo che illustra bene questo evento.

Commentato da Luigi borghi

Ecco l’articolo.

Ulteriori link utili:

https://solarsystem.nasa.gov/missions/voyager-2/in-depth/

Alla ricerca del pianeta 9.

Il pianeta nove di cui si parla qui è un ipotetico grosso pianeta che si troverebbe una ventina di volte più lontano dal Sole di Plutone, ma che avrebbe una massa di una decina di volte la nostra Terra. Ovviamente non lo ha mai visto nessuno! La luce del Sole è talmente fioca che, a quella distanza, il pianeta non la riflette a sufficienza per essere visto.

Qui sotto una immagine artistica del pianeta 9.

Vi sono però alcuni corpi della Fascia di Kuiper che hanno orbite tali da essere giustificabili solo con la presenza di una grossa massa che orbita da quelle parti.

Questo fantomatico pianeta nove mi ha sempre intrigato parecchio, al punto che ci ho pure scritto un libro “Civiltà scomparsa” che uscirà ai primi del 2021.

Nella mia avventura è solo un pianeta errante di passaggio perché è stato scaraventato nello spazio profondo a folle velocità dall’esplosione della sua stella e che attraversa la nostra nube di Oort senza fermarsi. Tutta la storia del libro ruota attorno alla corsa dell’umanità e della protagonista, la planetologa Joy, per arrivare a “toccare” e ad indagare un pianeta extrasolare, che poteva potenzialmente ospitare una civiltà evoluta e che la natura lo offre a “portata di mano”.

Qui, nell’articolo che vi propongo oggi invece si fa sul serio.

Gli astronomi di Yale, Malena Rice e Gregory Laughlin, stanno tentando con un metodo chiamato “spostamento e impilamento” (shifting and stacking), una tecnica che raccoglie la luce diffusa da migliaia di immagini del telescopio spaziale Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS) e identifica i percorsi orbitali per oggetti precedentemente non rilevati.

In poche parole, i due astronomi prendono le migliaia di foto ad altissima risoluzione ricevute da TESS, che fa il suo lavoro di routine, poi le sovrappongono una sull’altra (le impilano), ma spostandole una ad una come se seguissero una ipotetica traiettoria plausibile del pianeta calcolata secondo ipotesi derivate da comportamento di altri corpi trans nettuniani.  Come se seguissero con TESS un potenziale percorso orbitale. In questo modo la eventuale debole luce del pianeta nove verrebbe amplificata mentre i disturbi, le luci delle stelle vicine ed altre luci indesiderate, non sovrapponendosi vengono drasticamente attenuate.

Qui un esempio di questa tecnica con solo 12 immagini.

In questo modo, ogni tanto, la luce rivela il percorso di oggetti assolutamente invisibili altrimenti.

La Rice ha detto che lo spostamento e l’accatastamento sono stati utilizzati in passato per scoprire nuove lune del sistema solare. 

Il Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS), è un telescopio spaziale normalmente utilizzato per cercare pianeti extrasolari di cui abbiamo già parlato su questa homepage e sulla nostra rivista “Il C.O.S.Mo. News”.

Illustrazione artistica di TESS. Credit NASA.

Commento e traduzione di Luigi Borghi.

Eccovi la traduzione tratta da:

https://www.spacedaily.com/reports/Lighting_a_Path_to_Find_Planet_Nine_999.html

Ulteriori link utili:

https://scienceblog.com/519286/lighting-a-path-to-planet-nine/#:~:text=To%20detect%20objects%20that%20are,sets%20of%20potential%20orbital%20paths.

Illuminare un percorso per trovare il pianeta nove.

di Staff Writers. New Haven CT (SPX) 28 ottobre 2020.

La ricerca del Pianeta Nove – un ipotetico nono pianeta nel nostro sistema solare – potrebbe arrivare a individuare le scie orbitali più deboli in un angolo incredibilmente buio dello spazio.

Questo è esattamente ciò che gli astronomi di Yale Malena Rice e Gregory Laughlin stanno tentando con una tecnica che raccoglie la luce diffusa da migliaia di immagini del telescopio spaziale e identifica i percorsi orbitali per oggetti precedentemente non rilevati.

“Non puoi davvero vederli senza usare questo tipo di metodo. Se Planet Nine è là fuori, sarà incredibilmente debole”, ha detto Rice, autore principale di un nuovo studio che è stato accettato dal Planetary Science Journal [https : //psj.aas.org].

Rice, un dottorato di ricerca. studente di astronomia e Graduate Research Fellow della National Science Foundation, ha presentato i risultati il ​​27 ottobre all’incontro annuale della Divisione per le scienze planetarie dell’American Astronomical Society.

La possibilità di un nono pianeta nel sistema solare terrestre, situato oltre l’orbita di Nettuno, ha guadagnato slancio tra gli astronomi negli ultimi anni mentre hanno esaminato le curiose orbite di un ammasso di piccoli oggetti ghiacciati nella fascia di Kuiper. Molti astronomi ritengono che l’allineamento di questi oggetti – e le loro traiettorie – indichino l’influenza di un oggetto invisibile.

Sebbene la stragrande maggioranza della luce osservata dai pianeti nel sistema solare sia luce riflessa, la quantità di luce solare riflessa diminuisce drasticamente per un pianeta distante come il Pianeta Nove, probabilmente da 12 a 23 volte più distante dal Sole di Plutone.

Se esistesse, il pianeta nove sarebbe una cosiddetta super-Terra. Avrebbe da 5 a 10 volte la massa della Terra e sarebbe situato centinaia di volte più lontano dal Sole di quanto lo sia la Terra e da 14 a 27 volte più distante dal Sole di Nettuno, ha detto il professore di astronomia di Yale Gregory Laughlin, autore senior del nuovo studio.

“Questa è una regione dello spazio che è quasi del tutto inesplorata”, ha detto Laughlin.

Per rilevare oggetti altrimenti non rilevabili, Rice e Laughlin utilizzano un metodo chiamato “spostamento e impilamento”. Loro “spostano” le immagini da un telescopio spaziale – come muovere una fotocamera mentre scatta foto – lungo serie predefinite di potenziali percorsi orbitali. Quindi “impilano” centinaia di queste immagini insieme in un modo che combina la loro debole luce.

Ogni tanto, la luce rivela il percorso di un oggetto in movimento, come un asteroide o un pianeta.

Rice ha detto che lo spostamento e l’accatastamento sono stati utilizzati in passato per scoprire nuove lune del sistema solare. Questa è la prima volta che viene utilizzato su larga scala per cercare una vasta area di spazio. Le immagini che lei e Laughlin hanno utilizzato provenivano dal Transiting Exoplanet Survey Satellite, un telescopio spaziale normalmente utilizzato per cercare pianeti al di fuori del nostro sistema solare.

I ricercatori hanno testato il loro metodo cercando con successo i segnali luminosi di tre oggetti transnettuniani (TNO) noti

Successivamente, hanno condotto una ricerca alla cieca di due settori nel sistema solare esterno che potrebbero rivelare il Pianeta Nove o qualsiasi oggetto della fascia di Kuiper precedentemente non rilevato e rilevato 17 potenziali oggetti.

“Se anche uno solo di questi oggetti candidati fosse reale, ci aiuterebbe a comprendere le dinamiche del sistema solare esterno e le probabili proprietà del Pianeta Nove”, ha detto Rice. “Sono nuove informazioni convincenti.”

Attualmente sta lavorando con l’ex postdoc di Yale Songhu Wang, un membro della facoltà dell’Università dell’Indiana, per controllare i 17 candidati che utilizzano telescopi a terra.

Laughlin ha detto che l’uso riuscito dello spostamento e dell’accatastamento su scala limitata aprirà la strada a un’indagine su scala più ampia del sistema solare esterno, che è particolarmente convincente data la possibilità di trovare un nuovo pianeta.

“Dovremmo seguire ogni indizio per trovare maggiori informazioni”, ha detto Laughlin.

La Rice ha detto che rimane “agnostica” sull’esistenza del Pianeta Nove e vuole concentrarsi sui dati. “Ma sarebbe bello se fosse là fuori”.

Confronto tra iniziativa pubblica e privata nell’accesso allo spazio.

Ci troviamo ancora una volta di fronte, purtroppo, agli effetti negativi della politica sulle decisioni che riguardano la cooperazione internazionale sulla ricerca scientifica.

Mi auguro siano solo schermaglie politiche che poi verranno appianate dal buon senso su pressione della comunità scientifica, anche perché il tempo a disposizione non è tantissimo.

Mi riferisco al Gateway. La stazione orbitante intorno alla Luna.

Una iniziativa che dovrebbe dare seguito allo stesso gruppo di paesi che ha dimostrato una perfetta sintonia di collaborazione per realizzare a Stazione Spaziale Internazionale. La ISS.

Una squadra collaudata quindi! Ma ecco che nascono i problemi ancora prima di partire. Come vedete nell’articolo apparso su astronautinews.it sul link che allego, l’agenzia spaziale russa Roskosmos e quella americana NASA, non riescono a concludere un accordo. Il rischio è che la Russia rimanga fuori dai giochi per la realizzazione della stazione spaziale orbitante intorno alla Luna, il che mi sembrerebbe anacronistico. Fuori dalla logica, in perfetto stile guerra fredda, che speravo dimenticato e sepolto. Il progetto Artemis di ritorno sulla luna entro il 2024 andrebbe avanti comunque ma partiremmo sicuramente con il piede sbagliato. Ma solo per giustificare il titolo di questa flash, mentre le agenzie governative stanno a distinguere ed a guardare il pelo nell’uovo, ed a contare chi ha più metri quadrati di superficie dentro al Gateway, si rischia di vedere nel 2024 Elon Musk che con la su astronave Starship non andrà sulla Luna ma addirittura su Marte. Vedi il link space.com.

Il che dimostrerebbe ancora una volta che il know-how per lo sviluppo tecnologico c’è, ma che lasciarlo gestire alla politica è un errore.

Spero sia solo una mia preoccupazione. Fosse per me, oltre alla Russia, dentro al club attuale formato da Europa, USA, Giappone e Canada, vorrei anche Cina e India, ma questo sarebbe pretendere troppo. L’umanità è ancora lontana dal riuscire ad orchestrare una simile sinergia. La decisione politica è ancora troppo influenzata ed annebbiata dai vecchi interessi territoriali, di bandiera o di egemonia che impedisce di vedere i vantaggi per il futuro dell’umanità.

Ecco l’articolo.

Commentato da Lugi Borghi.