Perché l’Europa quest’anno non va su Marte?

Nell’estate 2020, anno in cui Marte e la Terra si trovano nella giusta posizione per consentire una missione di andata (capita ogni due anni circa), erano previsti tre lanci che avrebbero coinvolto il mondo intero: russi, americani, europei, giapponesi ed Emirati Arabi. Un vero assalto scientifico al pianeta rosso.

La NASA, a fine luglio, invierà  “Perseverance”  destinato alla missione Mars 2020 e dovrà, come il suo predecessore Curiosity, cercare tracce di vita sul suolo marziano e inviare dati da analizzare per studiare il Pianeta. Avrà a disposizione un piccolo elicottero per allargare l’area di ricerca. Un vero salto di qualità!

Gli Emirati Arabi, con un vettore giapponese della Mitsubishi, invieranno la sonda “Hope”, un orbiter con il quale inizieranno la loro avventura nell’esplorazione. Ve ne ha ampliamente parlato il collega Ciro Sacchetti nella sua flashNews di pochi giorni fa a cui vi rimando.

E noi? Cosa avrebbe dovuto fare l’ESA?

Dal cosmodromo di Bajkonur il razzo russo con il rover 2020 dell’ESA, con tanta tecnologia italiana, sarebbe dovuto appunto partire fra luglio e agosto, ma la prudenza ha consigliato il rinvio al 2022.

Il flop della sonda Schiaparelli, schiantatosi su Marte nel 2016, ha senz’altro contribuito ad allungare i tempi, ma sembra che non sia la vera causa dello slittamento.

Credo giusto aggiungere che il consorzio italiano che partecipa alla missione (con oltre un miliardo di euro di investimenti) ha fatto il suo dovere ed è in linea con il programma.

Sembra che i problemi che hanno fatto perdere la finestra di lancio del 2020, obbligando quindi a riprogrammarci per il 2022, siano dovuti alle connessioni ed alla interfaccia fra i componenti dell’Italia e dell’Agenzia spaziale europea con quelli russi di Roscomos.

Insomma problemi legati ai diversi standard utilizzati che, anche in passato, hanno fatto danni pure alla NASA.

Buona lettura

Commentato da Luigi Borghi.


Ecco il Link all’articolo:

https://www.ilmessaggero.it/scienza/exomars_coronavirus_rover_rinvio_esa_missione_marte_ecco_perche-5106925.html


PREPARATIVI PER L’INVIO DEL 22° CARGO SPACEX VERSO LA ISS.

Il lancio della 22° missione SpaceX di rifornimento per la stazione spaziale è previsto non prima del 3 giugno 2021. In quell’occasione, oltre ai rifornimenti logistici per la stazione e il suo equipaggio, saranno inviati materiali per alcuni interessanti esperimenti scientifici.
Eccone un elenco:

Molte delle informazioni le potete trovare nell’articolo originale: spacex-22-research-highlights

Di seguito analizzeremo gli aspetti più interessanti del carico utile che questa missione sta per inviare alla stazione spaziale.

Gli orsi dell'acqua vanno (o meglio tornano) nello spazio

I tardigradi, meglio conosciuti come “water bears” o orsi dell’acqua, sono piccoli organismi viventi che devono il loro nome per la forma e l’habitat naturale che prediligono: l’acqua. Sono creature molto piccole, gli adulti possono variare da meno di 0,1 mm a 1,5 mm. Le specie marine sono incolori o bianco-grigiastre, mentre quelle terrestri o d’acqua dolce possono essere di vari colori, ad esempio arancioni, gialle, verdi o nere. Sono organismi eutelici (hanno un numero di cellule costante durante il corso della vita; gli individui possono accrescersi solo per volume e non per mitosi). Il corpo, approssimativamente cilindrico, è costituito dal capo e da quattro metameri, ciascuno dei quali porta un paio di zampe che in molte specie marine sono parzialmente retrattili con un meccanismo telescopico. Alle estremità delle zampe vi è un numero variabile di unghie o dita, generalmente compreso tra 4 e 8. Raramente le unghie possono ridursi o mancare del tutto. Il corpo è rivestito da una sottile cuticola extracellulare elastica, formata anche da chitina.

I tardigradi sono diffusi in tutto il pianeta terra. Vi sono specie marine, terrestri e adattate alle acque dolci. Sono stati osservati in tutti i continenti, Antartide inclusa, e a tutte le altezze, dalle zone oceaniche abissali ad altezze superiori ai 6000 metri in Himalaya. Possono essere considerati essenzialmente animali acquatici, in quanto anche le specie terrestri vivono all’interno di strati d’acqua che possono avere lo spessore appena sufficiente per ospitarli. Sono comunque in grado di resistere per tempi lunghissimi al disseccamento e congelamento. La maggioranza delle specie si nutre di cellule vegetali. Vi sono però anche forme predatorie, il cui cibo è fornito da Protozoi, Rotiferi, Nematodi e anche da altri tardigradi. Perché questo piccolo animaletto è così interessante? I tardigradi sono in grado di sopravvivere in condizioni che sarebbero letali per quasi tutti gli altri animali, resistendo in particolare a:

  • mancanza d’acqua (possono sopravvivere fino a 100 anni in condizioni di totale disidratazione);
  • temperature alte o bassissime (possono resistere per pochi minuti a 151 °C, per parecchi giorni a −200 °C (~73K) o per pochi minuti a ~1K);
  • alti livelli di radiazione (anche centinaia di volte più alti di quelli che ucciderebbero un essere umano);
  • alte pressioni (anche sei volte maggiori di quelle dei fondali oceanici);
  • mancanza di ossigeno;
  • raggi UV-A e alcuni tipi perfino ai raggi UV-B.

Queste caratteristiche di grande resilienza hanno attirato l’attenzione di molti scienziati, una delle domande che ci si è posti è: può questa creatura sopravvivere anche alle condizioni ostili dello spazio esterno? Lo scopo di questo esperimento è appunto dare una risposta ancora più precisa a questa domanda. Non è la prima volta che, esemplari d questa specie, vengono inviati nello spazio esterno (e non solo, è stato fatto un tentativo di invio anche sulla luna) per verificarne la resilienza, ecco alcuni precedenti:

Esperimento TARDIS: l’autostop dei tardigradi per un passaggio in orbita.

Nel settembre del 2007 circa 3000 tardigradi, come degli autostoppisti spaziali, hanno ottenuto un “passaggio” a bordo della navicella russa Foton-M3, nell’ambito di oltre 40 esperimenti ESA. L’idea di questo esperimento è stata di un gruppo di scienziati Svedesi e Tedeschi, all’esperimento è stato dato il nome di “TARDIS” acronimo di “Tardigrades in space”.

La capsula Foton-M3, nel settembre del 2007 ha trascorso 12 giorni in orbita attorno alla terra.
La capsula Foton-M3, nel settembre del 2007 ha trascorso 12 giorni in orbita attorno alla terra.

Durante questo missione i tardigradi sono stati esposti per almeno 10 giorni allo spazio esterno tramite un apposito contenitore progettato per l’occasione, chiamato Biopan.

Un dettaglio della struttura Biopan agganciata alla capsula Foton-M3 ed utilizzata per “esporre” i tardigradi allo spazio esterno.

Il risultato principale tratto da questo esperimento è che il vuoto dello spazio esterno, dove troviamo condizioni di estrema disidratazione ed alti livelli di radiazione, non costituisce un grosso problema per i tardigradi, al loro rientro a terra alcuni sono risultati morti ma molti altri, una volta reidratati, sono tornati in vita ed alcuni di loro sono anche stati in grado di riprodursi. I tardigradi si uniscono quindi ad un selezionatissimo gruppo di organismi che, nel corso di oltre 10 anni di esperimenti dell’ESA, hanno dimostrato di essere in grado di sopravvivere al vuoto dello spazio, fra questi semi di lattuga, licheni e alcune di specie di spore batteriche (quest’ultime a patto di essere protette dai raggi solari diretti), i tardigradi però sono qualcosa di speciale perché sono organismi multicellulari di tipo animale.

Sorge una domanda importante: perché alcuni organismi viventi sulla terra sembrano essere pronti a sopravvivere nello spazio esterno? Perché codificato nel loro DNA troviamo strategie di sopravvivenza di questo genere? C’è un razionale in tutto ciò? Ancora nessuno può dirlo con certezza. Nasce però spontaneo un collegamento con alcune teorie che sostengono che tutta o parte della vita sulla terra non abbia avuto origine sulla terra stessa, ma possa essere stata trasportata e “iniettata” sulla terra attraverso meteoriti sopravvissuti al rientro in atmosfera, in sostanza potrebbe essere, anche solo in parte, di origine “aliena”. Proprio per analizzare questo aspetto l’ESA ha condotto diversi esperimenti sul comportamento di rocce esposte al rientro in atmosfera (uno di questi esperimenti è stato condotto proprio durante la missione Foton-M3), il risultato è stato che in diversi casi tutto ciò che si trovava fino a 2 cm di profondità veniva irrimediabilmente distrutto per le condizioni estreme di temperatura e pressione. Tuttavia i risultati di questi esperimenti lasciavano aperta la possibilità che, se un organismo si fosse trovato abbastanza in profondità nella roccia, per esempio in crepe o pori, avrebbe potuto sopravvivere anche a questo evento estremo. Insomma su questo tema non è detta l’ultima parola.

Link correlato: Tiny animals survive exposure to space

Missione Israeliana Beresheet: una gita sulla luna (da incubo) per i tardigradi

Il nome Beresheet in ebraico significa “in principio”. Beresheet è stata la prima missione lunare intrapresa da un organizzazione Israeliana e il primo tentativo, di una compagnia privata, di far atterrare un manufatto sul suolo lunare. Il progetto è stato realizzato per partecipare alla competizione “Lunar X Prize”, sponsorizzato da Google, in cui venne messo in palio un cospicuo premio in denaro (30 milioni di dollari statunitensi) alla prima compagnia private che fosse riuscita nell’impresa di far atterrare sulla Luna un robot a guida autonoma (rover). Il robot avrebbe dovuto percorrere almeno 500 metri e trasmettere immagini e video in alta definizione come prova del riuscito allunaggio. La competizione è stata ufficialmente conclusa, senza vincitori, il 23 gennaio 2018.

La missione è riuscita nell’impresa di posizionare il veicolo in orbita lunare, per risparmiare sul carburante e sul peso da inviare in orbita, è stata impostata una particolare traiettoria che, combinata con le forze gravitazionali in gioco del sistema terra luna, le ha consentito di descrivere orbite ellittiche sempre più ampie fino al punto da venire catturato dalla gravità lunare ed entrarne in orbita.

Una volta entrato in orbita lunare, l’11 aprile del 2019, il veicolo ha ricevuto da terra il comando per iniziare la discesa verso la superficie, nel tentativo di realizzare un allunaggio completo. Purtroppo durante la discesa, un giroscopio dell’unità di misurazione inerziale (IMU2) si è guastato durante la procedura di frenata, il controllo a terra non è stato in grado di far fronte al guasto con operazioni correttive a causa della contemporanea perdita di comunicazioni con il lander. Quando le comunicazioni sono state ripristinate, il motore principale del velivolo era rimasto per troppo tempo. Il motore è stato riportato in linea dopo un ripristino a livello di sistema; tuttavia, il lander aveva già perso troppa quota per rallentare sufficientemente la sua discesa, con conseguente schianto sul suolo lunare. Di seguito le foto del sito di atterraggio prima e dopo lo sfortunato evento viste da Lunar Reconnaissance Orbiter:

Il lander portava con se un carico molto particolare:

  • la “lunar library” una raccolta di 30 milioni di pagine di informazioni realizzate tramite migliaia di immagini ad alta risoluzione compresse in pochi centimetri quadrati, il risultato finale ha le dimensioni più o meno di un DVD.
  • Campioni di DNA umano.
  • Centinaia di tardigradi in stato “disidratato”.

Il carico era protetto da un doppio rivestimento di resina e nickel, il calore dell’impatto, secondo i calcoli, non dovrebbe essere stato sufficiente a danneggiare il rivestimento in nickel. In buona sostanza molto probabilmente il carico interno dovrebbe essersi salvato, ci sono quindi buone probabilità che i tardigradi siano ancora lì in stato “dormiente” in attesa che qualche missione futura li recuperi e magari li reidrati testandone ancora una volta la loro straordinaria capacità di adattamento. Vedremo se e quando qualcuno avrà i mezzi e la voglia per farlo.

Link correlati:
A Crashed Israeli Lunar Lander Spilled Tardigrades on the Moon
Mission Beresheet in depth

Torniamo ora al carico della prossima missione SpaceX

Come abbiamo potuto leggere nei due esempi precedenti, non è certo una novità l’invio di tardigradi nello spazio, tuttavia, nel caso del carico inviato dalla prossima missione SpaceX gli esperimenti saranno molto più sofisticati. In preparazione a questa missione i ricercatori a terra hanno sequenziato completamente il genoma della variante di tardigradi inviati in orbita: Hypsibius exemplaris, e sviluppato un metodo per misurare come differenti condizioni ambientali possano influire sull’espressione genica di queste creature, ovvero come i geni vengano attivati, silenziati, oppure ne venga modulata l’intensità di espressione in risposta a pressioni dovute ad ambienti ostili. Altra caratteristica importante di questo esperimento, chiamato Cell Science-04, è che le analisi avverranno nell’arco di più generazioni di tardigradi. I voli spaziali e le lunghe permanenze nello spazio esterno costituiscono uno stress per l’organismo umano molto elevato, i danni correlati possono compromettere seriamente la salute dei singoli astronauti oltre che il successo dell’intera missione. I risultati di questo esperimento sono potenzialmente importantissimi, possono fornire dati molto utili per aiutarci a capire quali siano i fattori che possono influire negativamente, quali strategia adotta il tardigrado per contrastarli e come adattare queste strategie all’organismo umano per salvaguardare gli astronauti di future missioni.

Link correlato:
Using Water Bears to Identify Biological Countermeasures to Stress During Multigenerational Spaceflight

Come reagisce la simbiosi tra calamaro e microbi benefici in condizioni di assenza di peso?

Un parte del carico di SpaceX 22 è costituito dal materiale per l’esperimento UMAMI (Understanding of Microgravity on Animal-Microbe Interactions). Questo esperimento mira ad esaminare gli effetti del volo spaziale sulle interazioni molecolari e chimiche tra i microbi benefici e i loro ospiti animali. Il ruolo della gravità nel plasmare queste interazioni non è ben compreso e la condizione di assenza di peso offre l’opportunità di migliorare tale comprensione. L’indagine utilizza un sistema animale modello, il calamaro Euprymna scolopes , e il suo batterio simbiotico, Vibrio fischeri , per accertare come i microbi colonizzino ed influenzino lo sviluppo degli animali anche in condizioni particolari come in orbita.

Immagine di calamari immaturi (Euprymna scolopes).
Viene mostrata una cassetta per l’elaborazione dei fluidi Techshot che fa parte del set di strutture hardware per voli spaziali dell’Advanced Space Experiment Processor (ADSEP) di Techshot. 
La cassetta è caricata con piccoli sacchetti che costituiscono “l’acquario” in cui i calamari potranno vivere in orbita. 
Un’immagine ravvicinata di una singola borsa dell’acquario che contiene otto larve di calamaro. 
Le sacche sono collegate a pompe che inietteranno i batteri luminescenti durante il volo spaziale.

Come molti organismi pluricellulari, Il corpo umano è un complesso sistema di relazioni e connessioni, che esprime l’intera struttura fisica di un essere umano, composto da diversi tipi di cellule che insieme formano tessuti, a loro volta sono organizzati in sistemi di organi o apparati, ovvero un sistema in cui tutti i vari sottosistemi o apparati sono in interazione reciproca tra loro per produrre la vita, questo dal punto di vista fisico è spesso visto come un sistema molto ma molto complesso.

Il nostro corpo contiene quindi miliardi di cellule. Sommando il numero di cellule di tutti gli organi del corpo di una persona adulta, troviamo all’incirca 30-37 mila miliardi di cellule nell’organismo. In particolare nel tratto gastrointestinale e sulla pelle sono presenti un ugual numero di cellule non umane e di organismi pluricellulari. Non tutte le parti del corpo sono costituite da cellule. Le cellule sono immerse in un materiale extracellulare costituito da proteine come il collagene, circondato dai fluidi extracellulari.

Dei 70 kg di peso di un corpo umano medio, circa 25 kg è composto da cellule non umane o materiale non cellulare come le ossa e il tessuto connettivo.

In sostanza una parte non trascurabile del nostro corpo non è originato dal DNA delle nostre cellule, si tratta di altri organismi che convivono con noi in equilibrio simbiotico. Questi equilibri sono importantissimi per la nostra salute e il nostro sistema immunitario. Capire quindi queste dinamiche a fondo e anche in ambienti “non convenzionali” è importante per affrontarli al meglio in anticipo.

Questo esperimento si prefigge quindi di iniziare a studiare queste dinamiche partendo da modelli animali più semplici e meno complessi del nostro.

Queste scoperte possono aiutarci a preservare le condizioni di salute degli astronauti nello spazio ma potrebbero anche portare a scoperte mediche per migliorare la salute delle persone rimaste a terra.

Link correlato:
Understanding of Microgravity on Animal-Microbe Interactions

Test di utilizzo di un Ecografo portatile in loco

Butterfly IQ Uitrasound è un dispositivo commerciale portatile che consente di effettuare analisi ecografiche locali utilizzando, come dispositivo di visualizzazione, un comune cellulare o tablet. Questo esperimento intende verificare le potenzialità d’uso di un ecografo portatile in combinazione con un dispositivo di elaborazione mobile in condizioni di assenza di peso. L’indagine raccoglierà il feedback dell’equipaggio sulla facilità di gestione e sulla qualità delle immagini ecografiche, inclusa l’acquisizione, la visualizzazione e l’archiviazione delle immagini.

Un medico dimostra l’uso del Butterfly IQ per l’imaging cardiaco.

APPLICAZIONI SPAZIALI

Le tecnologie basate sul mobile computing come Butterfly IQ Ultrasound possono fornire capacità mediche critiche agli equipaggi sui voli spaziali a lungo termine in cui il supporto immediato a terra non è un’opzione.

APPLICAZIONI TERRESTRI

Questa tecnologia ha potenziali applicazioni per l’assistenza medica in contesti remoti e isolati sulla Terra.

Link correlato:
Butterfly IQ Ultrasound

Sviluppare driver di robot migliori

Pilote, un esperimento/indagine dell’ESA (Agenzia spaziale europea) e del Centre National d’Etudes Spatiales (CNES), si propone di verificare l’efficacia del funzionamento remoto di bracci robotici e veicoli spaziali utilizzando la realtà virtuale e interfacce basate sulla percezione aptica o tocco e movimento simulati. I test dell’ergonomia per il controllo di bracci robotici e veicoli spaziali devono essere eseguiti in condizioni di assenza di peso, perché i test progettati a terra utilizzerebbero principi ergonomici che non si adattano alle condizioni sperimentate su un veicolo spaziale in orbita. Pilote confronta le tecnologie esistenti e nuove, comprese quelle recentemente sviluppate per controllo remoto di un operazione chirurgica e altre utilizzate per pilotare il braccio robotico Canadarm2 e il veicolo spaziale Soyuz. L’indagine confronta anche le prestazioni degli astronauti a terra e durante le missioni spaziali di lunga durata verificando se l’esposizione a lungo termine alla mancanza di peso evoca cambiamenti nelle prestazioni sensomotorie.

Studi recenti hanno dimostrato che il modo in cui il cervello utilizza le informazioni sensoriali per la percezione e per il controllo dei movimenti orientati ad un certo obbiettivo cambia nelle condizioni di assenza di peso e che le prestazioni nei compiti di coordinazione visivo-motoria sono influenzate negativamente. Ciò sembra essere dovuto al fatto che sulla Terra la direzione verticale, che viene rilevata dall’orecchio interno e da altri recettori gravitazionali distribuiti nel corpo, viene utilizzata come quadro di riferimento ispetto al quale i segnali sensoriali provenienti dal visivo, i sistemi propriocettivi e tattili sono codificati. Inoltre, i segnali di gravità sembrano giocare un ruolo fondamentale nella capacità del cervello di combinare visione, propriocezione e tatto.

Per le attività di Pilote, l’astronauta esegue compiti simili a quelli che potrebbe svolgere mentre si gioca ad un videogioco, in cui deve controllare dispositivi robotici virtuali attraverso l’uso di un controller tattile e un visore per realtà virtuale. L’indagine Pilote include due diversi set di attività: attività di PILOTAGGIO e attività di CATTURA.

Nelle attività di PILOTAGGIO l’operatore utilizza il dispositivo tattile per controllare i 6 gradi di libertà (posizione e orientamento) di un oggetto virtuale per seguire percorsi predefiniti nel modo più preciso e rapido possibile. Ogni set di attività è composto da più prove che differiscono in termini di percorso che l’oggetto virtuale deve seguire. Questo insieme di percorsi viene selezionato per testare diverse combinazioni di rotazioni di imbardata, beccheggio e rollio e spostamento lineare necessario per raggiungere la posizione finale dell’oggetto pilotato.

I concetti di Beccheggio rollio ed imbardata nell’esempio di un aereo.

Nel protocollo CAPTURE, l’operatore guida un braccio robotico virtuale con l’obiettivo di agganciare un oggetto bersaglio, cioè come per afferrare un satellite errante o attraccare con la Stazione Spaziale Internazionale. In contrasto con il protocollo PILOTING sopra descritto, l’attività CAPTURE enfatizza il raggiungimento della posizione target il più rapidamente e senza intoppi possibile, senza vincoli sul percorso richiesto per raggiungere quella posizione.

Si ipotizza che i dati raccolti durante queste indagine troveranno applicazioni sia spaziali che terrestri.

APPLICAZIONI SPAZIALI
I risultati delle attività Pilote forniranno importanti informazioni necessarie per ottimizzare l’ergonomia delle postazioni di lavoro a bordo della stazione spaziale e per i futuri veicoli spaziali per le missioni sulla Luna e su Marte. Questo design della stazione di lavoro per il controllo di dispositivi robotici come bracci robotici, veicoli spaziali e rover può sfruttare i criteri di ottimizzazione specifici delle condizioni di assenza di peso identificati attraverso le attività di Pilote.

APPLICAZIONI TERRESTRI
L’opportunità di testare la destrezza umana nell’utilizzo di nuovi approcci alla teleoperazione e al pilotaggio in assenza di peso consente la convalida di teorie e metodologie per interfacce uomo-macchina ottimali attraverso l’uso di aptica. Progettando interfacce in grado di affrontare le sfide che la vita in orbita presenta al corpo umano per la coordinazione occhio-mano, le metodologie risultanti possono portare a una migliore integrazione delle informazioni gravitazionali nella progettazione di interfacce destinate ad essere utilizzate sulla Terra.

Link correlato:
Pilote

Proteggere i reni nello spazio e sulla Terra

Alcuni membri dell’equipaggio mostrano una maggiore suscettibilità ai calcoli renali durante il volo, tutto ciò può influire negativamente sulla loro salute e sul successo della missione. Gli astronauti che vivono in orbita sulla ISS possono sperimentare disidratazione, stasi e demineralizzazione ossea, tutti fattori che contribuiscono frequentemente ai calcoli renali. L’ indagine Kidney Cells-02 utilizza un modello 3D di cellule renali (o chip di tessuto) per studiare gli effetti dell’assenza di peso sulla formazione di microcristalli che possono portare a calcoli renali. Fa parte dell’iniziativa Tissue Chips in Space , una partnership tra l’ ISS US National Laboratorye il National Institutes of Health’s National Center for Advancing Translational Sciences (NCATS) per analizzare gli effetti della vita in orbita sulla salute umana e tradurli in miglioramenti sulla Terra. Questa indagine potrebbe rivelare percorsi critici dello sviluppo e della progressione della malattia renale, portando potenzialmente a terapie per trattare e prevenire i calcoli renali per gli astronauti e, si stima ,per 1 persona su 10 sulla Terra che li sviluppa.

Con questo studio, i ricercatori sperano di identificare biomarcatori o ‘firme’ dei cambiamenti cellulari che si verificano durante la formazione di calcoli renali. Questo può portare a nuovi interventi terapeutici. La logica alla base di questo studio sulla stazione spaziale è che i microcristalli si comportino in un modo simile a quello che accade nei nostri reni, il che significa che rimangono sospesi nei tubi dei chip renali e non affondano sul fondo, come fanno nei laboratori sulla Terra. In condizioni di mancanza di peso, si prevede che questi microcristalli rimangano sospesi in modo uniforme, consentendo una migliore osservazione dei loro effetti. Nell’ambito di questa indagine, i microcristalli di ossalato di calcio (un componente comune dei calcoli renali) vengono introdotti in un tubulo riempito di cellule renali. Le cellule vengono valutate per segni molecolari di infiammazione e lesioni.

Immagini al microscopio elettronico a scansione di microcristalli di ossalato di calcio generati presso l’Università di Washington & Kidney Research Institute.
Il Nortis Organ Chip al microscopio nel laboratorio di Edward Kelly nel Dipartimento di Farmaceutica dell’Università di Washington. L’immagine mostra sullo sfondo un tubulo di cellule renali.

I risultati potrebbero supportare la progettazione di trattamenti migliori per condizioni come calcoli renali e osteoporosi per astronauti e persone sulla Terra, in particolare ci si attende che l’indagine produca risultati importanti sia per applicazioni a terra che per il volo spaziale:

APPLICAZIONI SPAZIALI
I membri dell’equipaggio in condizioni di assenza di peso hanno dimostrato una maggiore suscettibilità ai calcoli renali, che potrebbe rappresentare un’emergenza medica con conseguenze negative sulla salute dei membri dell’equipaggio e sul successo della missione. Questa indagine potrebbe rivelare percorsi critici dello sviluppo e della progressione della malattia renale e produrre nuove terapie per trattare e prevenire i calcoli renali, nonché altre malattie renali e l’osteoporosi, a beneficio sia degli astronauti che delle persone con queste condizioni sulla Terra.

APPLICAZIONI TERRESTRI
Circa 20 milioni di americani hanno una malattia renale cronica e 1 persona su 10 sviluppa un calcolo renale durante la vita. Attualmente, nessuna terapia farmacologica disponibile può ritardare o invertire la progressione della malattia renale cronica o dei calcoli renali. Una migliore comprensione dei fattori che contribuiscono alla corretta struttura e funzione dei tubuli renali può portare alla scoperta di trattamenti innovativi per queste condizioni.

Link correlato:
Effects of Microgravity on the Structure and Function of Proximal and Distal Tubule MPS

Produrre cotone più resistente

Le piante di cotone che sovraesprimono un determinato gene (AVP1) mostrano una maggiore resistenza ai fattori di stress, come la siccità, e producono il 20% in più di fibre di cotone rispetto alle piante senza quella caratteristica in determinate condizioni di stress. Questa resistenza allo stress è stata provvisoriamente collegata ad un sistema radicale potenziato che può attingere a un volume maggiore di terreno per l’acqua e le sostanze nutritive. Il TICTOC (Targeting Improved Cotton Through On- Orbit Cultivation ) studia come la struttura del sistema radicale influenzi la resilienza delle piante, l’efficienza nell’uso dell’acqua e il sequestro del carbonio durante la fase critica della creazione delle piantine. I modelli di crescita delle radici dipendono dalla gravità e TICTOC potrebbe aiutare a definire quali fattori ambientali e geni controllano lo sviluppo delle radici in assenza di peso. I confronti tra campioni in orbita e di controllo a terra consentirannol’identificazione di geni espressi in modo differenziale tra queste condizioni.

Anche la morfologia delle piante verrà analizzata utilizzando le immagini scattate durante l’indagine. Ogni immagine verrà sottoposta ad un’analisi morfometrica utilizzando il software di analisi della crescita delle piante Phenotiki e RootTrace. I parametri da quantificare includono la lunghezza del germoglio e della radice, il numero e la spaziatura della radice laterale, la rettilineità degli organi e la curvatura della punta. I confronti tra i trattamenti sono supportati da analisi statistiche (test t e F; ANOVA). L’analisi della parete cellulare consente la correlazione dei profili di espressione genica ai cambiamenti nella composizione del polimero della parete cellulare e nell’architettura del sistema radicale. Questi studi aiuteranno a scoprire l’impatto dell’ambiente di volo spaziale della ISS sulla crescita delle piantine di cotone e determinare se l’aumento dell’espressione di AVP1 fornisce una contromisura alle sollecitazioni che il sistema di radici del cotone incontra mentre cresce nello spazio.

Piantine di cotone per l’indagine TICTOC preparate per il volo.

L’obbiettivo dell’esperimento è quello di raccogliere dati per ottenere sia risultati applicabili al volo spaziale e colonizzazione di ambienti extraterrestri, ma anche risultati utilizzabili direttamente a terra:

APPLICAZIONI SPAZIALI
Per sperare di poter colonizzare altri ambienti extraterrestri, gli esseri umani devono essere in grado di coltivare piante per la produzione di cibo e ossigeno. La conoscenza generale di come la gravità influenza la struttura e la crescita delle radici delle piante acquisita in questa indagine potrebbe contribuire agli sforzi futuri per coltivare piante nello spazio.

APPLICAZIONI TERRESTRI
Ogni anno vengono prodotte più di 25 milioni di tonnellate di cotone da utilizzare in una varietà di prodotti di consumo tra cui abbigliamento, lenzuola e filtri per il caffè. Il cotone ha molti vantaggi economici e personali, ma la sua produzione comporta anche significativi effetti ambientali. Alcune stime mostrano che la produzione di un chilogrammo di cotone richiede migliaia di litri di acqua. La coltivazione del cotone comporta anche un uso intensivo di prodotti chimici agricoli, che possono influire sulla salute dei lavoratori e sugli ecosistemi circostanti. Questa indagine potrebbe migliorare la comprensione dei sistemi di radici del cotone e dell’espressione genica associata e consentire lo sviluppo di coltivazioni di cotone più robuste che richiedano meno acqua e uso di pesticidi.

Link correlato:
Targeting Improved Cotton Through On-orbit Cultivation

Potenza bonus per la ISS! Nuovi array solari per alimentare la ricerca sulla stazione spaziale internazionale della NASA

Mentre la Stazione Spaziale Internazionale orbita attorno alla Terra, le sue quattro coppie di array solari assorbono l’energia del sole per fornire energia elettrica per le numerose ricerche e indagini scientifiche condotte ogni giorno, così come per le continue operazioni della piattaforma orbitante. La stazione spaziale è il trampolino di lancio per le missioni Artemis della NASA sulla Luna, e una piattaforma per testare tecnologie avanzate per l’esplorazione umana dello spazio profondo e la futura missione su Marte. La NASA ha anche aperto la stazione spaziale per attività commerciali e attività commerciali , comprese le missioni di astronauti privati. Tutto questo richiede un consumo energetico via via crescente.

Progettati per una durata di servizio di 15 anni, gli array solari hanno funzionato ininterrottamente da quando la prima coppia è stata consegnata e montata nel dicembre 2000 , con coppie di array aggiuntive consegnate nel settembre 2006, giugno 2007 e marzo 2009 . La prima coppia di pannelli solari ha fornito energia elettrica continua alla stazione per più di 20 anni!

Sebbene funzionino bene, gli attuali pannelli solari stanno mostrando segni di degrado, come previsto. Per garantire che venga mantenuta un’alimentazione sufficiente per tutte le attività previste la NASA aumenterà sei degli otto canali di alimentazione esistenti della stazione spaziale con nuovi pannelli solari. Boeing, l’appaltatore principale della NASA per le operazioni della stazione spaziale, la sua sussidiaria Spectrolab e il principale fornitore Deployable Space Systems (DSS) forniranno i nuovi array. La combinazione degli otto array originali più grandi e dei nuovi array più piccoli ed efficienti ripristinerà la generazione di energia di ciascun array riportandoli approssimativamente alla quantità generata quando gli array originali sono stati installati per la prima volta.

I nuovi array solari saranno una versione più grande della tecnologia Roll-Out Solar Array (ROSA) che ha dimostrato con successo le capacità meccaniche del dispiegamento degli array solari durante il test sulla stazione spaziale nel giugno 2017.

Il test di dispiegamento nel 2017 mediante l’utilizzo del braccio robotico Canadarm2

Più piccolo e leggero dei pannelli solari tradizionali, il Roll-Out Solar Array, o ROSA , è costituito da un’ala centrale realizzata con un materiale flessibile contenente celle fotovoltaiche per convertire la luce in elettricità. Su entrambi i lati dell’ala c’è un braccio stretto che estende la lunghezza dell’ala per fornire supporto, chiamato Braccio composito distribuibile (DCB) ad alta tensione. I DCB sono strutture tubolari fatte di un materiale composito rigido, appiattiti e arrotolati longitudinalmente per il successivo dispiegamento. L’array si srotola o apre senza motore, utilizzando l’energia immagazzinata dalla struttura dei bracci che viene rilasciata quando ciascun braccio passa da una forma a bobina a un braccio di supporto diritto.

Immagine dell’ala completamente dispiegata.

ROSA può essere facilmente adattato a diverse dimensioni, inclusi array molto grandi, per fornire energia a una varietà di futuri veicoli spaziali. Ha anche il potenziale per rendere i pannelli solari più compatti e leggeri per la radio e la televisione satellitare, le previsioni meteorologiche, il GPS e altri servizi utilizzati sulla Terra. Inoltre, la tecnologia essere tranquillamente adattata per fornire energia solare in luoghi remoti. La tecnologia dei bracci ha ulteriori potenziali applicazioni, come per le comunicazioni, le antenne radar e altri strumenti.

I nuovi array solari saranno posizionati di fronte a sei degli attuali array e utilizzeranno il tracciamento solare, la distribuzione dell’energia e la canalizzazione esistenti. Questo approccio è simile a quello utilizzato per aggiornare le telecamere esterne della stazione ad alta definizione, utilizzando i meccanismi di alimentazione e controllo esistenti.

Sei array solari iROSA nella configurazione pianificata

I nuovi array oscureranno poco più della metà della lunghezza degli array esistenti e saranno collegati allo stesso sistema di alimentazione per aumentare l’offerta esistente. Gli otto array correnti sono attualmente in grado di generare fino a 160 kilowatt di potenza durante il giorno orbitale, di cui circa la metà è immagazzinata nelle batterie della stazione per essere utilizzata mentre la stazione non è esposta alla luce solare. Ogni nuovo pannello solare produrrà più di 20 kilowatt di elettricità, per un totale di 120 kilowatt (120.000 watt) di potenza aumentata durante il giorno orbitale. Inoltre, la coppia rimanente di array solari scoperti e gli array originali parzialmente scoperti continueranno a generare circa 95 kilowatt di potenza per un totale di fino a 215 kilowatt (215.000 watt) di potenza disponibile per supportare le operazioni della stazione al termine. Per fare un confronto, un computer e un monitor attivi possono consumare fino a 270 watt e un piccolo frigorifero utilizza circa 725 watt.

Rifiuti spaziali: ad oggi poche iniziative, ma qualche cosa si muove, forse troppo tardi!

Da quand’è che pariamo di “space debries”? Forse da oltre mezzo secolo! Da quando i satelliti artificiali sono diventati uno strumento di lavoro, di intelligence, di comunicazione e di guerra. Lo spazio intorno alla Terra è diventato “spazio di tutti e di nessuno” ma con implicazioni sicuramente su tutti! Un piccolissimo pezzo di materiale solido, anche di pochi millimetri quadrati, può fare danni enormi con conseguenze micidiali sulle attività dell’uomo nello spazio. Lo sapevamo da oltre mezzo secolo ma la cooperazione internazionale (si fa per dire) aveva altri problemi da affrontare. Forse più gravi (come il surriscaldamento globale, la fame e la povertà nel mondo) o forse anche no, tant’è che ora abbiamo milioni di piccoli proiettili vaganti incontrollati ed invisibili che prima o poi faranno dei danni, di questo ne siamo certi tutti.

Bisogna ammettere che correre ai ripari dopo che si sono messi in circolazione questi proiettili è una lotta titanica persa in partenza, ma ciò che potrebbe, se non altro, evitare di peggiorare la situazione e cercare di prevenire! Obbligare chi ha la possibilità di accesso allo spazio, pubblico o privato, ad osservare comportamenti, procedure e leggi che garantiscano la non proliferazione di space debries.

A questo proposito, per potervi allineare su come si sta muovendo il mondo dei “lanciatori”, vi propongo e vi commento questi due articoli che esaminano la situazione.

Partiamo con un articolo di Gianmarco Vespia su astronautinews da me commentato che analizza i mezzi che portano in orbita i satelliti quindi anche i potenziali detriti: i razzi!

Dove finiscono i razzi al termine della missione?

Sopra la carcassa di un Sojuz. Credit: Roskosmos, caduto nella steppa e sotto il booster dal razzo cinese Chang Zheng 3 B / G3 (lanciato il 2 Giugno 2021) rientrato a terra su strada dopo il lancio.

Ci sono decine di migliaia di satelliti attivi in orbita terrestre: scientifici, militari, commerciali, delle telecomunicazioni… Svolgono il loro servizio per un periodo di tempo prolungato, a volte anche di parecchi anni. Per arrivare lì dove sono è necessario un mezzo di trasporto esageratamente grande rispetto al satellite: un razzo vettore che svolge il suo lavoro solamente per pochi minuti, per riuscire a dare al carico quota e velocità desiderate per inserirsi nell’orbita finale. Il lanciatore, solitamente, poi non ha più altri compiti da svolgere e viene abbandonato o per fortuna anche recuperato, come ha dimostrato la SpaceX.

Il destino del razzo ormai inutile dipende sostanzialmente dalla tecnologia e dal profilo di missione per cui è stato impiegato. Prima di scendere nei particolari, è doveroso notare che tutti i razzi vettori, nessuno escluso, sono composti di varie parti che vengono espulse via via che il lanciatore si avvicina al traguardo della sua missione: booster laterali, stadi, interstadi, ogiva, eventuali coperture termiche, adattatori e altri componenti di minore importanza.

Negli ultimi anni si sta diffondendo la pratica di tentare il recupero e riciclo di alcune componenti, ma è ancora una prassi in esercizio o in fase di studio solo per poche aziende. Il primo programma di riuso di componenti di un lanciatore risale addirittura alla fine dell’era spaziale delle missioni Apollo, quando iniziò lo sviluppo dello Space Shuttle, che inizialmente doveva essere completamente riutilizzabile ma poi, date le grosse difficoltà tecnologiche da affrontare, vide realizzato il recupero e il ricondizionamento del solo orbiter e raramente dei booster laterali. Sebbene in un primo momento possa sembrare un’ovvia evoluzione economica dello sviluppo astronautico, i costi necessari alla filiera di riciclo superavano di gran lunga i benefici, e i progressi sul rientro controllato dei lanciatori andarono in pausa per lungo tempo fino ad arrivare allo scorso decennio, quando SpaceX per la prima volta riuscì a effettuare l’atterraggio morbido di un primo stadio di un Falcon 9.

Il primo atterraggio di un Falcon 9 su una piattaforma a terra

Ormai l’azienda di Elon Musk ci ha abituato agli atterraggi controllati dei primi stadi dei suoi lanciatori Falcon 9, ma anche altri attori stanno studiando come riuscire a recuperare parte del prezioso hardware utilizzato per mandare satelliti in orbita, con tecniche più o meno simili.

Rocket Lab, ad esempio, prevede di recuperare al volo il primo stadio del suo Electron, con un elicottero che dovrebbe agganciarlo dopo un rientro controllato con l’apertura di un paracadute. ULA progetta di staccare solo il comparto motori dal primo stadio del suo nuovo razzo Vulcan, la parte più costosa, per tentarne il recupero.

Anche alcune agenzie spaziali spingono per avere nella loro flotta qualche esemplare adatto al recupero, come CNSA con il suo Lunga Marcia 8 o Roskosmos con il progetto del nuovo razzo Amur.

Si tratta comunque di una fetta ridotta del complesso delle attività spaziali. La verità è che al momento la maggior parte dei vettori dopo il loro utilizzo vengono semplicemente abbandonati, e si schiantano da qualche parte sulla Terra. Ad oggi non si sono mai registrati danni a persone derivanti da eventi di questo tipo. Per vedere come si affronta il problema dell’abbandono dei razzi, nelle sue varie componenti, bisogna fare una distinzione tra le parti che raggiungono la velocità orbitale e quelle che vengono espulse prima.

 

Il caso suborbitale.

Solitamente i primi stadi, i booster laterali e l’ogiva dei razzi soddisfano il compito per cui sono stati progettati entro pochi minuti dal lancio, e non raggiungono quasi mai la velocità orbitale. Il rientro in questo caso è di tipo distruttivo (cioè provoca la perdita del componente stesso), avviene a velocità di caduta e viene programmato accuratamente in modo da avere luogo lontano da porzioni di territorio densamente abitate. Non è un incidente.

È tutto previsto già in partenza: tutto nominale, come si dice nel gergo astronautico.

Per gli operatori che hanno la possibilità di effettuare un lancio da una base situata sulla costa est di un territorio, il gioco si fa molto più semplice, perché si riesce facilmente a programmare un rientro in mare, lontano da zone abitate e segnalato con grande anticipo alle imbarcazioni (tramite un avviso chiamato NOTMAR – Notice to Mariners) in modo che non entrino all’interno dell’area di ricaduta dei detriti.

In rosso le zone NOTAM per il volo Ariane 5 VA241. Credit Image: Spaceflight101/Google Earth.

È il caso dei lanci che avvengono da Cape Canaveral, Wallops, Kourou, Wenchang o Mahia, ad esempio. In questi casi viene emesso anche un NOTAM (NOtice To AirMen) che delimita le zone di pericolo per rientro incontrollato. Le zone in un NOTAM possono essere più di una, e sono a forma di rettangoli allungati nella direzione di marcia, tanto più larghi quanto è la distanza dalla zona di lancio.

Il piano volo di un Ariane 5, ad esempio, con dei satelliti da portare in orbita geostazionaria, prevede un lancio dalla base di Kourou, nella Guyana francese, col distacco dei due booster laterali e dell’ogiva tra due e tre minuti dopo il lancio, e la separazione del primo stadio circa nove minuti dopo. Booster e ogiva cadranno in mare al largo delle coste sudamericane in acque internazionali, mentre il primo stadio rientrerà più vicino al continente africano, sempre in mare, in una zona imprecisata molto più estesa della precedente.

Quando un lanciatore parte dall’entroterra, la questione si complica un po’ di più, perché i booster o il primo stadio vanno separati dal resto del razzo quando ancora non si sorvola il mare, per cui dovranno precipitare per forza di cose al suolo. Queste costrizioni possono avere un impatto notevole sulle attività spaziali. La Stazione Spaziale Internazionale ruota attorno alla Terra in un’orbita inclinata di 51,6°.

Tale orbita venne scelta proprio per permettere i lanci delle capsule russe dal cosmodromo di Bajkonur, in Kazakistan. La base di lancio fu costruita in territorio Kazako quando i due stati facevano entrambi parte dell’Unione Sovietica, e oggi russi la utilizzano grazie a uno speciale accordo.

Se la ISS si trovasse su un’orbita meno inclinata (e quindi più favorevole ai lanci dagli USA), il razzo Sojuz usato per trasportare sulla ISS carichi ed equipaggi dovrebbe forzatamente essere lanciato su una traiettoria che lo porterebbe a sorvolare il territorio cinese, dove precipiterebbe una volta esaurito il propellente. Per evitare problemi diplomatici, per la ISS fu scelta un’inclinazione dell’orbita tale da portare lo stadio centrale del Sojuz a cadere in territorio russo, nei pressi dell’altopiano dell’Altai, dove ormai i cittadini del luogo (si tratta di una regione vicino alla Siberia a bassissima densità di popolazione) sono abituati a convivere con eventi simili, tanto che ci hanno costruito attorno una microeconomia. I locali infatti trovano, raccolgono e riciclano questi detriti. I serbatoi e altre parti in metallo vengono utilizzati per costruire attrezzature per l’agricoltura, oppure vengono rivenduti. Non sono rare anche azioni legali per il disagio arrecato, anche se Roskosmos risarcisce solo i danni materiali. Il lanciatore Sojuz utilizza ossigeno liquido e cherosene speciale per razzi, che non sono tossici per l’ambiente.

Contadini dell’Altai recuperano metallo utile da una carcassa di razzo circondati da migliaia di farfalle. Foto Flickr di Jonas Bendiksen.

La situazione si fa ancora più delicata quando il lancio da uno spazioporto dell’entroterra viene eseguito con un lanciatore alimentato a combustibili tossici, come è il caso del russo Proton o dei lanciatori cinesi Lunga Marcia CZ-2, CZ-3 e CZ-4, in tutte le loro varianti.

In questi casi c’è poco da fare: il rientro sul territorio del primo stadio porterà al suolo residui di carburante nocivo. In particolare, queste 4 famiglie di razzi usano come carburante dimetilidrazina asimmetrica e come ossidante tetrossido di diazoto, che sono un retaggio di sviluppi in campo astronautico ormai tecnologicamente superati.

Sia l’agenzia spaziale russa che quella cinese programmano di eliminare questi lanciatori dalla loro flotta di razzi attivi, sostituendoli con i più moderni Amur, ancora in fase di sviluppo, e con i CZ-6, CZ-7 e CZ-8, già in attività da qualche anno.

La transizione purtroppo sarà lenta e richiederà ancora parecchi anni.

 

Il caso orbitale.

Tutto quanto spiegato precedentemente non si applica agli stadi che raggiungono la velocità orbitale, pari a circa 7,9 chilometri al secondo (naturalmente per orbite terrestri). La vita di uno stadio in questo caso non si limita più ai pochi minuti di caduta balistica. Lo stadio in questi casi potrebbe rimanere in orbita giorni, mesi, anni, o addirittura rimanerci per sempre. In caso di rientro, zona di ricaduta e velocità sono molto più grandi di un rientro suborbitale.

In molti casi, fino a poche ore prima del rientro non si riesce a individuare con precisione la zona di potenziale impatto dei detriti, soprattutto quando si tratta di uno stadio in orbita bassa (tra i 160 e i 1.000 km di quota). Sebbene la latitudine del punto di impatto si possa limitare con l’inclinazione orbitale, la longitudine può assumere un valore qualunque, spaziando da est a ovest per tutto il globo. D’altro canto, una velocità così elevata è il fattore che consente allo stadio in rientro di frantumarsi, bruciando e vaporizzando la maggior parte della propria massa e lasciando eventualmente arrivare in superficie solo le componenti di densità elevata.

Alcuni costruttori hanno aggiunto ai loro ultimi stadi la possibilità di eseguire un’accensione finale, dopo che hanno rilasciato il carico utile, impartendo la spinta necessaria a controllare la caduta e a “mirare” una zona della Terra lontano da insediamenti abitati, tipicamente nell’oceano Pacifico.

Con la sua estensione questo oceano garantisce un’ampia scelta di zone per rientri sicuri.

Tuttavia, questa capacità non è prerogativa di tutti, e non sempre è precisa o funzionante ma si tratta comunque di un importante passo nella direzione della sostenibilità, per mantenere l’orbita terrestre pulita ed evitare rientri che potrebbero allertare i sistemi di sicurezza di molte nazioni del mondo. Per poter compiere manovre di rientro controllato, lo stadio finale deve essere studiato sin dalla fase di progettazione per integrare tale capacità. Come minimo deve essere in grado, infatti, di ruotare per girarsi nel verso opposto a quello di marcia, e naturalmente di riaccendere i motori.

A titolo di esempio, il secondo stadio dell’Ariane 5 nella sua prima versione (Ariane 5 G, 1996) non aveva la possibilità di riaccendere i motori, dato che non era una funzionalità richiesta per far fronte ai requisiti commerciali del progetto. La variante in esercizio tutt’ora (variante ES, 2008), più potente della precedente, possiede invece questa capacità, ed è stata usata per le missioni ATV verso la ISS per far rientrare nell’oceano il grosso stadio centrale del lanciatore europeo, dopo l’inserimento del carico in orbita. Anche il secondo stadio del Falcon 9 è dotato della possibilità di riaccendere i motori al termine della missione, e dal 2014 effettua regolarmente, per le missioni in orbita bassa, una manovra finale per evitare di diventare un detrito spaziale.

Qualche volta può accadere che ci sia un problema e l’accensione finale non avvenga. Questo non compromette la missione principale, ma può portare al rientro incontrollato dello stadio che si trasforma in un inaspettato spettacolo pirotecnico, come avvenuto di recente per la missione Starlink 17.

In caso lo stadio finale del razzo non disponga di questa possibilità, questo rimarrà nello spazio per molto tempo, costituendo un rischio per le altre attività spaziali. Si tratta comunque di un rischio ormai ben studiato, calcolato e monitorato dalle istituzioni a cui è assegnato il compito di tenere sotto controllo i detriti spaziali, come il recentemente istituito 18º squadrone della Space Force statunitense, o l’EUSST, European Union Space Surveillance and Tracking.

Gli stadi apparentemente inattivi in orbita possono essere molto pericolosi soprattutto per il rischio di esplosioni improvvise, che peggiorerebbero enormemente la situazione generando migliaia di altri detriti da un singolo oggetto.

Questi eventi sono dovuti all’energia residua che possiedono gli ultimi stadi, fondamentalmente a causa di propellente rimasto o batterie ancora leggermente cariche, che in qualche modo viene sollecitata col tempo nelle condizioni avverse dell’ambiente spaziale.

Da una decina d’anni alcune agenzie spaziali e produttori hanno adottato unilateralmente alcune pratiche per la mitigazione di questi rischi, sebbene non esistano accordi internazionali multilaterali che impongano restrizioni sull’uso dei lanciatori.

In particolare, una pratica ormai adottata universalmente è la passivazione del razzo.

Con questo termine si indicano le varie misure atte a eliminare il più possibile le cause che potrebbero portare in futuro il mezzo abbandonato all’esplosione, come l’espulsione del carburante residuo, lo scaricamento delle batterie e altre eventuali piccole procedure. Un’altra prassi abbastanza comune è cercare di portare l’ultimo stadio del razzo in un’orbita in cui il decadimento dello stesso avverrà naturalmente (per effetti di meccanica orbitale) entro 25 anni dal lancio, o eventualmente, nel caso di missioni verso l’orbita geostazionaria (GEO), di spostarlo in una cosiddetta “orbita cimitero”, a circa 250 km al di sopra dell’orbita GEO, dove non darà più alcun fastidio ad altre operazioni spaziali.

Le statistiche aggiornate ad aprile 2021 mostrano effettivamente numeri che richiedono attenzione. Ci sono circa 8.800 oggetti nello spazio riconducibili a lanciatori, che siano stadi, detriti o frammenti di essi, di cui circa 1.000 sono effettivamente stadi (rocket body) in orbita bassa o in un’orbita eccentrica con perigeo basso (LMO). Prima o poi questi oggetti rientreranno a Terra, liberando l’orbita che occupavano da pericoli. Il rientro avverrà per tutti in una zona imprecisata e senza preavviso, ma a velocità abbastanza elevata da far sì che la maggior parte della massa dell’oggetto bruci all’impatto con l’atmosfera.

Non sono rari i casi di ritrovamenti a terra di detriti orbitali, ma non si sono mai registrati ingenti danni per rientri del tipo di quelli discussi in questo articolo.

La Terra, in fin dei conti, è bombardata costantemente da meteoroidi e meteoriti che spesso arrivano inosservati fino alla superficie, a un ritmo medio di 100 tonnellate di oggetti naturali al giorno.

La massa dello stadio superiore di un razzo si aggira normalmente intorno a qualche tonnellata, e arriva fino a un massimo di 20 tonnellate nel caso del Lunga Marcia 5B, l’unico razzo a stadio singolo attualmente in esercizio.

La grossa differenza con gli oggetti naturali è che quelli artificiali contengono componenti ad alta densità o progettati per resistere al calore, che hanno buone probabilità di superare relativamente indenni le fasi del rientro orbitale.

Il caso delle missioni interplanetarie.

Molto, in questo caso, dipende da quando avviene la separazione tra il carico utile e l’ultimo stadio, ma generalmente quest’ultimo si perde in orbita eliocentrica, cioè lasciando completamente l’orbita terrestre. Il destino può essere diverso, come nel caso del terzo stadio del Saturn V, che dalla missione Apollo 13 in poi è stato fatto schiantare sulla superficie della Luna per motivi scientifici.

È anche successo, e non solo una volta, che uno stadio del Saturn V abbia abbandonato l’orbita terrestre e poi sia tornato quando ormai tutti si erano dimenticati di lui, non riconoscendolo e identificandolo come un nuovo asteroide scoperto.

Il moto in prossimità della Terra del presunto asteroide J002E3. Credit: NASA

Il terzo stadio della missione Apollo 12 superò la Luna, e si perse in orbita eliocentrica per circa 40 anni fino a tornare nei pressi della Terra ed essere identificato come asteroide, ricevendo la denominazione J002E3. A causa di vari giochi di meccanica orbitale, l’oggetto compì alcune orbite attorno al nostro pianeta, prima di lasciarlo (forse) definitivamente.

 

Questioni legali

È infine doveroso fare una breve digressione sulle questioni legali relative alla possibilità che un rientro incontrollato di un razzo, orbitale o suborbitale che sia, arrechi danni a persone o cose. Innanzitutto, è bene sottolineare che anche in questo caso non ci sono accordi internazionali che regolamentino tutte le questioni. Oltre agli accordi sull’uso pacifico dello spazio promossi dall’ONU, l’unico altro trattato a livello di Nazioni Unite a riguardo è il LIAB del 1972 ovvero la Convenzione sulla responsabilità internazionale dei danni causati da oggetti spaziali.

Ma anche in questo caso, non si tratta di una norma che impedisce di far ricadere razzi o detriti spaziali sulla superficie terrestre: il LIAB offre linee guida relative unicamente all’attribuzione delle responsabilità in caso di conseguenze indesiderate.

Inoltre, il LIAB è un accordo tra Stati, e non riguarda direttamente i privati. Se un detrito spaziale cade sulla casa di un cittadino di una nazione differente da quella di chi l’ha lanciato, saranno le due nazioni coinvolte a negoziare il rimborso dei danni. Il privato potrà solo rivalersi sullo Stato di cui è cittadino seguendo la giurisdizione locale, che ovviamente sarà diversa a seconda della nazione.

Mappa degli oggetti arrivati al suolo e rinvenuti dopo un rientro incontrollato. Credit: ESA

Comunque, non è mai successo che una nazione invocasse il LIAB per la caduta di un razzo, e per la caduta di un satellite è successo una volta sola dal momento della sua adozione. Fu infatti applicato nel caso particolare causato della distruzione del satellite sovietico Kosmos 954, i cui frammenti caddero nel 1978 su una vasta porzione del territorio canadese senza causare però danni diretti.

La particolarità di quell’evento sta nel fatto che il contenuto del carico era altamente radioattivo; erano presenti a bordo, infatti, 50 kg di uranio U²³⁵ necessari ad alimentare il reattore nucleare della sonda. In quel caso Canada e Unione Sovietica si accordarono per un risarcimento di 6 milioni di dollari canadesi.

Per quanto concerne le misure messe in atto dalle agenzie spaziali, normalmente il valore di fatalità attribuito al rientro incontrollato di uno specifico oggetto non deve superare una certa soglia limite. Per l’ESA questo valore è fissato a 1:10.000. Si tratta di un valore analogo a quello adottato dalle altre agenzie spaziali e da molte nazioni.

Il rischio per la popolazione poi dipende fortemente dall’inclinazione orbitale più che dalla massa stessa dell’oggetto, ovviamente supponendo che qualche detrito arrivi fino alla superficie terrestre.

La variazione di questo rischio è dovuta principalmente alla distribuzione non uniforme della popolazione terrestre in funzione della latitudine. Un rientro casuale generico ha sempre valori al di sotto della soglia di emergenza riconosciuta, di circa un ordine di grandezza per inclinazioni orbitali tra i 35° e i 40°, e di ben due ordini di grandezza per orbite equatoriali. Ogni caso però ha una storia a sé, e va studiato individualmente.

Termino questa noiosa analisi con una buona notizia, anche se sembra di chiudere la stalla quando i buoi sono già fuggiti, ma almeno evitiamo che scappino anche gli altri. È con questo spirito che trovo una ottima notizia questa iniziativa del World Economic Forum (WEF), dell’Agenzia spaziale europea (ESA) e del MIT Media Lab.: una sorta di pagella da assegnare ai vari operatori del settore spaziale.

Il nuovo rating di sostenibilità dei veicoli spaziali prende di mira la spazzatura spaziale.

Dal 2022, gli operatori di veicoli spaziali potranno ottenere certificati di sostenibilità per le loro missioni.

Da un articolo di Tereza Pultarova di Space.com

Un’immagine concettuale che illustra i detriti spaziali in orbita attorno alla Terra.

Gli operatori di veicoli spaziali potranno richiedere il rating di   sostenibilità a partire dal prossimo anno (2022) per dimostrare che i loro satelliti non presentano rischi inutili nell’ambiente orbitale e contribuiscono al problema della spazzatura spaziale. 

La valutazione, progettata per incoraggiare un comportamento sostenibile, esaminerà vari aspetti della progettazione della missione, tra cui la scelta dell’orbita, le misure per prevenire le collisioni e i piani di de-orbita. 

Le aziende potranno guadagnare punti bonus per l’installazione di funzioni speciali sui loro veicoli spaziali che renderebbero più facile la rimozione attiva alla fine della vita del satellite, come le piastre magnetiche delle maniglie. 

Lo Space Sustainability Rating (SSR) è stato sviluppato congiuntamente dal World Economic Forum (WEF), dall’Agenzia spaziale europea (ESA) e dal MIT Media Lab e sarà supervisionato dal Centro spaziale dell’università tecnologica svizzera École Polytechnique Fédérale de Lausanne (EPFL ), ha affermato il WEF in una dichiarazione rilasciata giovedì (17 giugno).

La valutazione sarà disponibile per tutti i tipi di missioni spaziali, comprese quelle che coinvolgono equipaggi umani. 

Nikolai Khlystov, responsabile per la mobilità e lo spazio al WEF, ha affermato nella dichiarazione che il forum spera che incentivare un comportamento migliore spingerà gli attori del settore spaziale a competere sulla sostenibilità e creare una corsa al vertice.

Il rating offrirà quattro livelli di certificazione. 

I sostenitori del progetto sperano che il raggiungimento di un buon risultato possa offrire alle aziende vantaggi aggiuntivi, come costi assicurativi inferiori o una migliore reputazione tra gli investitori

Holger Krag, capo del programma di sicurezza spaziale dell’ESA, nella dichiarazione ha affermato:”L’SSR mira a influenzare il comportamento di tutti gli attori del volo spaziale, in particolare le entità commerciali e aiuta a portare nell’uso comune le pratiche sostenibili di cui abbiamo disperatamente bisogno. Per raggiungere questo obiettivo, il rating SSR include una valutazione peer-reviewed dei rischi a breve e lungo termine che qualsiasi missione presenta ad altri operatori e per il nostro ambiente orbitale in generale”.

La comunità di esperti è da tempo preoccupata per il crescente numero di satelliti nello spazio. Negli ultimi anni, aziende private come SpaceX , OneWeb e Amazon hanno iniziato a sviluppare megacostellazioni progettate per racchiudere decine di migliaia di satelliti, più di quanti ne fossero stati lanciati nei 64 anni trascorsi dal primo satellite, Sputnik . 

All’aumentare del numero di satelliti, aumenta anche il rischio di collisioni. Le collisioni satellitari , come l’incidente del 2009 tra il satellite per telecomunicazioni statunitense Iridium e il defunto satellite militare russo Kosmos-225, generano enormi quantità di frammenti. Ciascuno di quei frammenti poi continua a sfrecciare sulla propria traiettoria a 28.000 km/h, minacciando altri veicoli spaziali in orbita .

Secondo l’ESA, ci sono attualmente circa 34.000 frammenti di detriti spaziali più grandi di 10 centimetri in orbita attorno alla Terra, oltre a circa 900.000 frammenti tra 1 e 10 cm e l’incredibile cifra di 128 milioni di oggetti tra 1 millimetro e 1 cm. 

Gli esperti ritengono infatti che la quantità di detriti spaziali sia già così elevata che si stanno già manifestando i primi segnali del cosiddetto Effetto Kessler , una dannosa cascata di collisioni che potrebbe rendere inutilizzabili alcune aree dello spazio. 

Danielle Wood, Direttore dello Space Enabled Research Group presso il MIT Media Lab, nel comunicato ha detto: “C’è un lavoro più importante da fare nella ricerca ingegneristica, nella definizione delle politiche e nella costruzione di norme per garantire che la comunità globale possa operare nello spazio per i decenni a venire. Tutti noi che abbiamo contribuito alla SSR ci impegniamo a continuare questo importante lavoro e speriamo che altri continuino a partecipare”.

Il problema dei detriti spaziali sta finalmente ricevendo maggiore attenzione anche a livello politico. 

Al recente vertice dei leader del G-7 in Cornovaglia, nel Regno Unito, i rappresentanti delle principali nazioni industriali hanno concordato di rendere prioritario il problema della spazzatura spaziale al fine di garantire un futuro uso sostenibile dello spazio. 

Ci sono voluti due anni per sviluppare gli Space Sustainability Ratings. La richiesta sarà del tutto volontaria. 

Commentato da Luigi Borghi.

Link correlati:

https://www.space.com/space-sustainability-rating-tackles-space-junk

Segnali positivi per l’high tech italiano: andiamo sulla Luna!

Non possiamo certo dire che il 2021 sia cominciato bene: la pandemia sta galoppando e, tanto per non farci mancare nulla, siamo pure senza governo. Ma la notizia che 9 giorni fa l’Agenzia spaziale europea (ESA) ha firmato un contratto da quasi 296 milioni di euro con Thales Alenia Space per costruire un modulo europeo per la stazione spaziale Lunar Gateway della NASA, mi fa pensare che la nostra industria aerospaziale ha dimostrato ancora una volta di essere tra i leader a livello mondiale.

Una notizia attesa perché Thales Alenia Space aveva già annunciato il 14 ottobre di essere stata selezionata per costruire il modulo ESPRIT Gateway. 

Il 7 gennaio il contratto è stato finalizzato e firmato da entrambe le parti. 

Il progetto sarà guidato da Thales Alenia Space a Cannes, in Francia, con il supporto di Thales Alenia Space in Italia e nel Regno Unito.

Il modulo ESPRIT (Sistema europeo che fornisce rifornimento, infrastrutture e telecomunicazioni) fornirà capacità di comunicazione e rifornimento a Gateway, la stazione spaziale internazionale pianificata in orbita attorno alla luna e destinata a supportare missioni con equipaggio sulla superficie lunare e oltre. 

ESPRIT consisterà di due elementi principali (frecce gialle nell’immagine credit NASA), l’Halo Lunar Communication System (HLCS) e il modulo di rifornimento ESPRIT (ERM). 

HLCS fornirà alla stazione spaziale Gateway comunicazioni dati, voce e video. Il sistema è in fase di sviluppo accelerato e dovrebbe essere lanciato nel 2024 come parte dell’US Habitation and Logistics Outpost (HALO) costruito da Northrop Grumman Innovation Systems americana.

L’ERM consentirà alla stazione di ricevere propellenti dai veicoli spaziali in visita per mantenere la sua orbita attorno alla luna e per rifornire di carburante i veicoli in transito sulla superficie lunare. Inoltre, il modulo offrirà un piccolo spazio di lavoro pressurizzato per l’equipaggio della stazione dotato di ampie finestre che offrono una vista a 360 gradi. L’ERM dovrebbe essere consegnato nel 2026 con il suo lancio successivo un anno dopo. Oltre al modulo ESPRIT, Thales Alenia Space sarà anche responsabile del modulo International Habitation (I-HAB) che fornirà alloggi per l’equipaggio e porti di attracco per supportare i veicoli in transito. Il modulo è una collaborazione congiunta tra ESA, NASA e le agenzie spaziali di Canada e Giappone. Il lancio è previsto nel 2026.

Rendering della stazione lunare Gateway (Credit NASA)

Quindi, noi ci siamo! Saremo responsabili di una buona parte dell’hardware che costituirà il Gateway che a sua volta si integrerà con il programma della NASA “Artemis” che prevede di ritorno sulla Luna di astronauti entro in 2024.

Vi propongo un link di astronautinews dove potrete trovare maggiori dettagli.

Commentato da Luigi Borghi.

Space X sempre più vicina al test di volo della sua astronave Starship

Il prototipo Starship SN04 durante il test criogenico
Credit: NASASpaceflight/BocaChicagal

Il programma spaziale della SpaceX rischia di produrre mezzi di trasporto spaziale che supereranno, come prestazioni, quelli di qualsiasi agenzia spaziale governativa, NASA compresa.
Il veicolo completamente recuperabile e riutilizzabile sognato da Elon Musk, lo Starship, sarà la soluzione finale (almeno per un certo periodo) per il trasporto passeggeri nello spazio.
Lo “spazio” inteso da Musk non è solo la Stazione Spaziale, cioè l’orbita bassa terrestre. No! Starship è (sarà) un veicolo studiato per portare passeggeri, tanti, sulla Luna e su Marte e, perché no, anche da un continente all’altro in poco più di un’ora.
Lui usa un metodo collaudatissimo e vincente per portare avanti i suoi progetti innovativi: un passo alla volta, piano piano (ma poi neanche tanto). Fa errori, li capisce, rimedia modificando il progetto e poi avanti con il prossimo passo. È così via fino all’obiettivo. È stato cosi, se vi ricordate, con il recupero del primo stadio dei Falcon. All’inizio tanti fallimenti e poi… ora non fa più notizia, ma resta a tutti gli effetti, l’unico lanciatore orbitale al mondo in esercizio ad essere recuperabile.
Con lo Starship, sarà la stessa cosa. Lo abbiamo visto “scoppiare” sul sito di prova già diverse volte. Poi lo vedremo fare un balzetto per aria a 150 metri di quota. Dopodiché ce lo troveremo pieno di gente che va su Marte. Beh… forse è ancora presto, ma non mi stupirei se arrivasse ad essere pronto prima lui degli altri (per altri intendo il resto del mondo) per questa missione marziana.

Nell’immagine il prototipo ridotto di SN02 durante il test criogenico.
Credit: NASASpaceflight/BocaChicagal

Clicca qui per andare all’articolo di Alive Universe

Trump firma la direttiva sulla politica spaziale-6 (SPD-6) sull’energia nucleare e la propulsione spaziale.

Non c’è dubbio che il presidente USA uscente, Donald Trump, voglia lasciare il segno sulla politica spaziale americana. È di dieci giorni fa la notizia che Trump ha firmato un decreto (lui non fa i DPCM come in Italia, ma i DPR), il SPD-6, con cui lancia ufficialmente il percorso della NASA per arrivare ad avere entro fine decennio la capacità di alimentare le future colonie marziane e lunari con generatori elettrici ad energia nucleare a fissione e contemporaneamente aprire la strada alla propulsione nucleare, ed è quest’ultima la vera svolta!

Fino ad oggi le sonde nello spazio profondo ed i recenti rover marziani sono stati alimentati ad energia nucleare ma solo attraverso il calore del decadimento radioattivo del plutonio, gli RTG (Radioisotope thermoelectric generator). Fino ad ora non è mai stato reso esecutivo nessun tipo di propulsione nucleare, anche se sono stati realizzati prototipi fin dagli inizi degli anni ’60 del secolo scorso.

Ora con il programma Kilopower di cui abbiamo già parlato e che si trova già in fase sperimentale presso i laboratori di Los Alamos, si volta pagina decisamente.

Illustrazione artistica di un sistema di alimentazione a fissione sulla superficie di Marte utilizzando cinque unità da 10 kilowatt.

(Immagine: © NASA)

Potete trovare un approfondimento su questo argomentonell’articolo: “Kilopower, il generatore nucleare della NASA”, che trovate a pagina 21 del numero 37 (giugno 2018) nella nostra rivista “Il C.O.S.Mo. News” disponibile gratuitamente su questo sito qui:

(https://ilcosmo.net/wp-content/uploads/2020/05/Il-Cosmo-News-37-2018-10_02.pdf .

Il limite degli RTG era nella potenza massima che arrivava ad essere di poche centinaia di Watt, con i Kilopower si rende disponibile una “famiglia” scalabile di generatori che vanno da pochi KW a centinaia di KW. Ciò che serve per alimentare per decenni una colonia lunare o marziana.

 Questi dispositivi convertono l’energia nucleare di un reattore a fissione con uranio poco arricchito in calore per il riscaldamento delle postazioni abitative e per la strumentazione ed energia elettrica per il fabbisogno delle colonie.

Esistono già da mezzo secolo i generatori elettrici alimentati da mini-reattori nucleari a fissione. Sono da tempo installati su sottomarini, portaerei, rompighiaccio, ecc., da parte di molti paesi come USA, Russia, Cina, Europa. Ma su una nave, raffreddare l’enorme quantità di calore di “scarto” emesso da tale tecnologia è decisamente facile: si usa l’acqua dell’oceano. Su una nave spaziale o sulla Luna o su Marte le cose sono molto diverse.

Ecco che con il Kilopower si cambia proprio la tecnologia. Anziché una conversione calore-vapore-turbina-generatore, come nelle centrali installate sulle portaerei, si è passati ad una soluzione calore, fluido-Stirling-generatore.

Non pensate al classico motore Stirling con il pistone che va su e giù in un cilindro. L’usura lo distruggerebbe nel giro di pochi anni. Lo Stirling usato dalla NASA ha sì un pistone che scorre in un cilindro ma non tocca le pareti, quindi non c’è usura. Può funzione per anni senza manutenzione.

Ciò che invece produrrà una svolta epocale sarà la propulsione nucleare.

Ecco un frame del filmato che troverete nell’articolo di cui vi parlo.

Nel SPD-6, all’interno dello space nuclear power and propulsion SNPP, è previsto anche la propulsione e questo cambierà tutto!

Ne parleremo a tempo debito, quando avremo a disposizioni maggiori dettagli, per ora vi posso dire che ho in cantiere un articolo sul numero 48 che uscirà a fine febbraio e pure una pillola, la nona della serie volare, che uscirà su YouTube a metà gennaio.

Per ora vi consiglio questo articolo tratto da Space.com

Commentato e tradotto da Luigi Borghi

Ecco l’articolo:

https://www.space.com/trump-space-policy-nuclear-power-propulsion

Trump firma la direttiva sulla politica spaziale-6 (SPD-6) sull’energia nucleare e la propulsione spaziale. Di Mike Wall 16/12/2020.

Uno degli obiettivi stabiliti in SPD-6 è il test di un sistema di alimentazione a fissione sulla luna entro la metà e la fine degli anni ’20.

L’energia nucleare rappresenterà una parte importante degli sforzi di esplorazione spaziale degli Stati Uniti in futuro, afferma un nuovo documento politico.

Il presidente Donald Trump mercoledì (16 dicembre) ha emesso la direttiva sulla politica spaziale-6 (SPD-6), che definisce una strategia nazionale per l’uso responsabile ed efficace dei sistemi di energia e propulsione nucleare spaziale (space nuclear power and propulsion SNPP).

Mercoledì scorso Scott Pacevice assistente del presidente e segretario esecutivo del National Space Council ha dichiarato:“L’energia nucleare e la propulsione spaziale sono una tecnologia fondamentale per le missioni nello spazio profondo americane su Marte e oltre. Gli Stati Uniti intendono rimanere il leader tra le nazioni che viaggiano nello spazio, applicando la tecnologia dell’energia nucleare in modo sicuro, protetto e sostenibile nello spazio”.

I sistemi nucleari sono stati parti importanti del portafoglio di esplorazione della nazione per decenni. Ad esempio, molti degli esploratori robotici di più alto profilo della NASA, comprese le sonde interplanetarie Voyager 1 e Voyager 2, la sonda New Horizons nella missione su Plutone e il rover Curiosity Mars, hanno ricavato la loro energia dai generatori termoelettrici a radioisotopi (RTG), che convertono in elettricità il calore generato dal decadimento radioattivo del plutonio-238.

Un uso più esteso dei sistemi SNPP potrebbe aiutare tale portafoglio ad espandersi notevolmente nel prossimo futuro. Ad esempio, la NASA e il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti stanno lavorando insieme a un progetto di reattore a fissione chiamato Kilopower (https://www.space.com/nuclear-reactor-for-mars-outpost-2022.html), che potrebbe fornire il supporto essenziale per gli avamposti con equipaggio sulla Luna e su Marte. 

E l’amministratore della NASA Jim Bridenstine ha salutato la propulsione termica nucleare, che sfrutterebbe il calore emesso dalle reazioni di fissione per accelerare i propellenti a velocità incredibili, come potenziale punto di svolta per gli sforzi di esplorazione dello spazio profondo dell’agenzia.

SPD-6 rafforza e formalizza tale impegno nei confronti dei sistemi SNPP. Ad esempio, il documento, che puoi leggere qui , afferma che gli Stati Uniti dovrebbero sviluppare, entro la metà del 2020, capacità di produzione e lavorazione di carburante sufficienti a supportare una varietà di sistemi spaziali nucleari, dagli RTG alla propulsione nucleare termica e nucleare.

Un altro obiettivo stabilito da SPD-6 è la dimostrazione di un “sistema di alimentazione a fissione sulla superficie della luna che è scalabile fino a un intervallo di potenza di 40 kilowatt elettrici (kWe) e superiore per supportare una presenza lunare sostenuta e l’esplorazione di Marte. “Se possibile, ciò dovrebbe avvenire entro la metà e la fine del 2020” afferma il documento.

SPD-6 è la sesta direttiva sulla politica spaziale firmata dal presidente Trump, come suggerisce il nome. 

SPD-1 ha ufficialmente incaricato la NASA di riportare gli astronauti sulla luna per aiutare a prepararsi per le missioni su Marte con equipaggio; 

SPD-2 ha alleggerito i regolamenti sull’industria dei voli spaziali privati; 

SPD-3 mirava ad aiutare con la gestione del traffico spaziale; 

SPD-4 ha ordinato al Dipartimento della Difesa di istituire la US Space Force;

SPD-5 ​​hanno definito una politica di sicurezza informatica per i sistemi spaziali statunitensi.

Come indica l’elenco, il presidente Trump è stato piuttosto attivo nel dominio della politica spaziale. Ha anche resuscitato il National Space Council, che era rimasto inattivo dall’inizio degli anni ’90. 

E proprio la scorsa settimana, ha emesso una nuova politica spaziale nazionale , che mira a rafforzare la sicurezza nazionale e la leadership americana nello spazio, tra gli altri obiettivi.

Mike Wall è l’autore di ” Out There ” (Grand Central Publishing, 2018; illustrato da Karl Tate), un libro sulla ricerca della vita aliena.

Ultime news spaziali 2021 e le novità del 2022.

Sono troppi gli argomenti interessanti di questo periodo di fine anno quindi mi limiterò a parlarvi delle notizie che ritengo meritino attenzione per importanza strategica, peculiarità e proiezione nel 2022.

Davanti a tutti vi è sicuramente il lungo viaggio del JWST, che è decollato il giorno di Natale dalla base di lancio ESA del Centro spaziale guyanese, sito a Kourou nella Guyana francese con un Ariane 5. Un lancio perfetto!

Ma non mi voglio dilungare oltre anche perché per saperne di più abbiamo il nostro Roberto Castagnetti che ci tiene continuamente aggiornati sulla complicatissima missione da 10 miliardi di dollari, che culminerà con l’arrivo in L2 a oltre 1,5 milioni di km da Terra.

Trovate tutti gli aggiornamenti sul nostro canale Telegram “Il COSMo News” a cui vi rimando.

Poi vorrei anche aggiornarvi sugli eventi in fase di sviluppo che sono attesi nel 2022 e che determineranno una svolta nella esplorazione spaziale.

  1. L’evento più attesa sarà sicuramente la “prima luce” del JWST, le prime immagini che promettono di farci vedere galassie mai viste prima createsi quando il nostro universo era appena nato e forse anche qualche primo piano di pianeti extrasolari o quantomeno la composizione della loro eventuale atmosfera.
  2. Poi abbiamo spero finalmente a marzo la prima missione Artemis1, che vedrà il lancio dello SLS della NASA. Il mitico Space Launch System, che ha collezionato ritardi ed extracosti da record, porterà la navicella ORION, con un manichino a bordo, a fare qualche orbita intorno alla Luna. SLS Sarà il vettore statunitense che riporterà gli astronauti sulla Luna a metà decennio. Artemis 1 avrà il compito di validare i mezzi (SLS non ha mai volato mentre la ORION ha già fatto un volo a 5000 km di quota), le comunicazioni e le nuove strategie. Sarà il più grande razzo mai costruito, almeno fino a che non arriverà la Starship della SpaceX.

3) Infatti, l’altro evento sarà il primo volo orbitale della Starship di Elon Musk, che dovrebbe avvenire in primavera. La Starship verrà portata in orbita bassa dal possente razzo Super Heavy, sempre della SpaceX. Questo evento assumerà particolare importanza dato il fatto che la NASA avrebbe scelto questo mezzo, cioè la Starship, come sistema di allunaggio per il progetto Artemis. Se tutto andrà come previsto, questa “navetta” di una cinquantina di metri verrà caricata sopra ad un SLS (o su un Super Heavy) e spedita sulla Luna, con astronauti a bordo. Un altro grande passo per l’umanità, direbbe Neil Armstrong.

4) Prevista a settembre la partenza per l’orbita terrestre del nuovo razzo pesante New Glenn della Blue Origin (di Jeff Bezos) che conta di entrare nel ricco mondo dei lanciatori con questo nuovo razzo pesante di ultima generazione. Ne parleremo approfonditamente nel corso del 2022.

5) Avremo poi finalmente il debutto come contractor per la NASA dello Starliner, la navetta della Boeing, che insieme alla Crew Dragon della SpaceX fornirà il servizio taxi da e per la Stazione Spaziale Internazionale. Lo Starliner, chiamato anche CST-100, è già stato in orbita senza equipaggio ma per problemi di software non riuscì ad agganciarsi alla ISS, quindi, dovette tornare sulla Terra dove atterrò senza problemi come previsto. A maggio e poi a settembre 2022 la Starliner inizierà i voli per il trasporto di materiali e uomini alla ISS. Un programma che ha subito ritardi incredibili ma che sono convinto porterà una alternativa valida perché con questo mezzo, per la prima volta dopo gli Space Shuttle, gli astronauti torneranno sulla terra nel deserto e non in acqua come la Orion o la Crew Dragon. In realtà già lo fanno sia la Virgin Galactic che la Blue Origin, ma con equipaggi di voli suborbitali.

  • 6) Andrà finalmente in orbita il mitico DREAM CHASER. I primi lanci sono previsti per marzo, giugno, agosto e novembre 2022. Costruito da Sierra Space con grandi ambizioni, Dream Chaser è un mini Space Shuttle: lungo nove metri (circa la metà degli Shuttle), è lanciato da un razzo e atterra su pista. Nel 2022 effettuerà una serie di voli di prova programmati verso l’ISS, per missioni di rifornimento e recupero di esperimenti scientifici per conto della NASA. Nessuna di queste missioni sarà pilotata, ma Dream Chaser può ospitare sette astronauti che, probabilmente, inizieranno a prendere posto sulla navetta tra il 2023 e il 2024.
  • 7) La sonda Juno della NASA catturerà un primissimo piano di Europa, una delle lune di Giove, a febbraio e a settembre 2022. La sonda, in orbita attorno a Giove dal 2016, ha già avuto un incontro a distanza ravvicinata con Europa nell’ottobre 2021. Tuttavia nel 2022 la navicella, costata 1,1 miliardi di dollari, osserverà Europa da una distanza di 47.000 chilometri a febbraio, per poi arrivare a soli 355 chilometri dalla superficie a settembre.
  • 8) Partirà verso Giove anche la sonda europea: JUICE. La partenza della sonda dell’ESA è fissata per maggio. Dopo il lancio, la JUpiter ICy moons Explorer (JUICE) dovrà sostenere un lungo viaggio verso il pianeta gigante del Sistema Solare: l’arrivo è previsto per il 2029. A quel punto, per almeno tre anni e mezzo JUICE ci permetterà di studiare le lune di Giove: Ganimede, Europa e Callisto.

9) Comincerà sul serio la ricerca mineraria sugli asteroidi. Con la missione Psyche, in partenza nell’agosto 2022, l’ente spaziale americano vuole un primo piano di uno degli oggetti più intriganti e forse tra i più preziosi che conosciamo, l’asteroide 16 Psyche. Il lanciatore della missione che sarà completamente robotica e a basso costo sarà uno SpaceX Falcon Heavy. Con questa missione la NASA ha l’obiettivo di scoprire se quell’oggetto è davvero composto di ferro e nichel (e se vale la pena aprire lì una miniera) e per capire come si è formato.

  • 10) ExoMars: Europa e Russia su Marte. Dopo numerosi ritardi la partenza è fissata per il 20 settembre 2022. l’Agenzia spaziale europea e quella russa (Roscosmos) avviano infine la missione congiunta – ExoMars – verso il Pianeta Rosso. Una finestra di lancio di 12 giorni si aprirà il 20 settembre 2022 e si prevede che il rover, battezzato Rosalind Franklin, possa atterrare su Marte il 10 giugno 2023.
  • 11) Il 2 ottobre 2022 il Double Asteroid Redirection Test (DART) della NASA e dell’Agenzia spaziale europea andrà a impattare contro Dimorphos, piccola luna dell’asteroide 65803 Didymos. Un esperimento importante per trovare il modo più corretto per deviare un asteroide nel caso fosse in rotta di collisione con la Terra.
  • 12) Partirà il primo modulo del Gateway, in orbita tra la Terra e la Luna. Non solo: la Luna nel 2022 diventerà oggetto di una decina di missioni private. Alcune saranno composte solamente da sonde che rimarranno in orbita lunare, altre porteranno sul nostro satellite esperimenti di vario tipo. Se non si regolamenterà a livello internazionale che vincoli anche i provati la Luna diventerà un nuovo far west.
  • 13) Poi abbiamo i cinesi con la loro Tiangong 3, la nuova stazione spaziale che sarà completamente operativa nel 2023, ma che nel 2022 vedrà il maggior impegno nell’assemblaggio in orbita.
  • 14) Infine, ma non meno importanti, abbiamo un gran da fare su Marte, ormai con 3 Rover attivi: due americani ed uno cinese, ed una fitta rete di orbiter europei, americani, arabi e cinesi. Il 2022 potrebbe essere l’anno della svolta nella ricerca di tracce di vita passata nel sottosuolo marziano.

NUOVE TECNOLOGIE

Come dicevo, oltre ai fatti eclatanti che caratterizzeranno il prossimo anno e sperando che il covid stia sparando le sue ultime cartucce, vi voglio parlare anche di una notizia che ritengo interessante perché riguarda una tecnologia veramente innovativa: la levitazione sulla Luna!

Gli ingegneri del MIT testano un’idea per un nuovo rover lunare a levitazione

Da un articolo di Jennifer Chu per MIT News, Boston MA (SPX) 27 dicembre 2021; https://www.moondaily.com/reports/MIT_engineers_test_an_idea_for_a_new_hovering_Lunar_rover_999.html

Questa illustrazione mostra un’immagine concettuale del rover.

Gli ingegneri aerospaziali del MIT stanno testando un nuovo concetto per un rover sospeso che levita sfruttando la carica naturale della luna.

Poiché non hanno un’atmosfera, la luna e altri corpi senz’aria come gli asteroidi possono creare un campo elettrico attraverso l’esposizione diretta al sole e al plasma circostante. Sulla luna, questa carica superficiale è abbastanza forte da far levitare la polvere a più di 1 metro dal suolo, proprio come l’elettricità statica può far rizzare i capelli di una persona. La bassa magnitudine del campo elettrico superficiale naturale (ordine 10 V / m) limita comunque fortemente la capacità di un veicolo di sfruttare la levitazione elettrostatica come strategia di manovra, in particolare su grandi corpi planetari, come la Luna

Gli ingegneri della NASA e altrove hanno recentemente proposto di sfruttare questa carica superficiale naturale per far levitare un aliante con ali in Mylar, un materiale che mantiene naturalmente la stessa carica delle superfici dei corpi senz’aria. Hanno ragionato che le superfici con carica simile dovrebbero respingersi, con una forza che solleva l’aliante da terra. 

Ma un tale progetto sarebbe probabilmente limitato a piccoli asteroidi, poiché i corpi planetari più grandi avrebbero un’attrazione gravitazionale più forte e contrastante.

Il rover levitante del team del MIT potrebbe potenzialmente aggirare questo limite di dimensioni. 

Il concept, che ricorda un disco volante in stile retrò, utilizza minuscoli fasci di ioni per caricare il veicolo e aumentare la carica naturale della superficie. L’effetto complessivo è progettato per generare una forza repulsiva relativamente grande tra il veicolo e il suolo, in un modo che richiede pochissima potenza. 

In uno studio di fattibilità iniziale, i ricercatori mostrano che un tale aumento di ioni dovrebbe essere abbastanza forte da far levitare un piccolo veicolo da 2 libbre sulla luna e grandi asteroidi come Psiche.

I risultati del team appaiono nell’ultimo numero del Journal of Spacecraft and Rockets. I coautori di Jia-Richards sono Paulo Lozano, il professore di aeronautica e astronautica M. Aleman-Velasco e direttore dello Space Propulsion Lab del MIT; e l’ex studente in visita Sebastian Hampl, ora alla McGill University.

Forza ionica.

Il design levitante del team si basa sull’uso di propulsori ionici in miniatura, chiamati sorgenti ioniche ioniche-liquide. Questi piccoli ugelli microfabbricati sono collegati a un serbatoio contenente liquido ionico sotto forma di sale fuso a temperatura ambiente. Quando viene applicata una tensione, gli ioni del liquido vengono caricati ed emessi come un raggio attraverso gli ugelli con una certa forza.

Il team di Lozano ha aperto la strada allo sviluppo di propulsori ionici e li ha utilizzati principalmente per spingere e manovrare fisicamente piccoli satelliti nello spazio. Recentemente, Lozano aveva visto una ricerca che mostrava l’effetto levitante della superficie carica della luna sulla polvere lunare. 

Ha anche preso in considerazione il progetto dell’aliante elettrostatico della NASA e si è chiesto: un rover dotato di propulsori ionici potrebbe produrre abbastanza forza repulsiva ed elettrostatica da librarsi sulla luna e su asteroidi più grandi?

Per testare l’idea, il team ha inizialmente modellato un piccolo rover a forma di disco con propulsori ionici che caricavano da solo il veicolo. Hanno modellato i propulsori per irradiare ioni caricati negativamente fuori dal veicolo, il che ha effettivamente conferito al veicolo una carica positiva, simile alla superficie caricata positivamente della luna. 

Ma hanno scoperto che questo non era abbastanza per far decollare il veicolo.

Puntando poi ulteriori propulsori a terra ed emettendo ioni positivi per amplificare la carica della superficie, il team ha pensato che il boost potesse produrre una forza maggiore contro il rover, sufficiente a farlo levitare da terra. 

Hanno elaborato un semplice modello matematico per lo scenario e hanno scoperto che, in linea di principio, potrebbe funzionare.

Sulla base di questo semplice modello, il team ha previsto che un piccolo rover, del peso di circa due libbre, potrebbe raggiungere una levitazione di circa un centimetro da terra, su un grande asteroide come Psiche, utilizzando una sorgente di ioni da 10 kilovolt. Per ottenere un simile decollo sulla luna, lo stesso rover avrebbe bisogno di una sorgente da 50 kilovolt.

Questo tipo di design ionico utilizza pochissima energia per generare molta tensione.

In sospensione.

Per essere sicuri che il modello rappresentasse ciò che potrebbe accadere in un ambiente reale nello spazio, hanno eseguito un semplice scenario nel laboratorio di Lozano. 

I ricercatori hanno prodotto un piccolo veicolo di prova esagonale del peso di circa 60 grammi e delle dimensioni del palmo di una mano. Hanno installato un propulsore ionico rivolto verso l’alto e quattro verso il basso; quindi, hanno sospeso il veicolo su una superficie di alluminio da due molle calibrate per contrastare la forza gravitazionale terrestre. L’intera configurazione è stata collocata all’interno di una camera a vuoto per simulare l’ambiente senz’aria della luna e degli asteroidi.

I ricercatori hanno anche sospeso un’asta di tungsteno dalle molle dell’esperimento e hanno usato il suo spostamento per misurare la forza prodotta dai propulsori ogni volta che venivano attivati. Hanno applicato varie tensioni ai propulsori e misurato le forze risultanti, che hanno poi usato per calcolare l’altezza che il solo veicolo avrebbe potuto levitare. Hanno trovato questi risultati sperimentali abbinati alle previsioni dello stesso scenario dal loro modello, dando loro la certezza che le sue previsioni per il volo di un Rover su Psiche e sulla luna fossero realistiche.

Il modello attuale è progettato per prevedere le condizioni richieste per ottenere semplicemente la levitazione, che si trovava a circa 1 centimetro da terra per un veicolo da 2 libbre. 

I propulsori ionici potrebbero generare più forza con una tensione maggiore per sollevare un veicolo più in alto da terra. Ma Jia-Richards afferma che il modello avrebbe bisogno di essere rivisto, poiché non tiene conto di come si comporteranno gli ioni emessi ad altitudini più elevate.

“In linea di principio, con una migliore modellazione, potremmo levitare ad altezze molto più elevate”, afferma.

In tal caso, Lozano afferma che le future missioni sulla luna e sugli asteroidi potrebbero schierare rover che utilizzano propulsori ionici per librarsi e manovrare in sicurezza su terreni sconosciuti e irregolari.

Con un Rover levitante, non ci si deve preoccupare delle ruote e il percorso potrebbe essere totalmente irregolare, tipico di un asteroide o della Luna.

Gli esperimenti vengono condotti in un ambiente di laboratorio per dimostrare la fattibilità dell’utilizzo di sorgenti ioniche ioniche-liquide per la ricarica combinata di veicoli e superfici creando una forza elettrostatica di 1 mN attraverso il trasporto di carica e richiedendo solo 0,2 mW di potenza in ingresso.

Questa ricerca è stata supportata, in parte, dalla NASA.

Commentato da Luigi Borghi

Rapporto di ricerca: “Levitazione elettrostatica su corpi planetari privi di atmosfera con sorgenti ioniche liquido-ioniche”

https://arc.aiaa.org/doi/pdf/10.2514/1.A35001

https://news.mit.edu/2021/moon-hovering-rover-1221 https://www.tomshw.it/scienze/il-mit-prepara-un-rover-lunare-a-levitazione-elettrostatica/

È il momento giusto per augurare a tutti i nostri follower un

magnifico 2022!

Un buco nero nel sistema solare?

La prima sensazione che ci pervade leggendo questo titolo è la paura.

Abbiamo spesso parlato, qui su queste pagine, di buchi neri super massicci con masse di miliardi di volte il Sole e con diametri che ingloberebbero l’orbita di Venere. Beh… tranquillizziamoci! Un buco nero di quella natura e dimensioni non lo potremo mai vedere nel sistema solare per due solide ragioni: 1) la vita in prossimità non potrebbe mai attecchire; 2) un sistema planetario come quello solare  ci sarebbe finito dentro tutto intero. Ma questo è un altro discorso. Se fino ad ora non abbiamo mai visto questo ipotetico e piccolissimo blackhole all’interno del sistema solare, nonostante telescopi a terra di 36 metri di diametro, un motivo ci sarà: forse, oltre ad essere “nero”, molto piccolo e anche molto distante (nella fascia di Kuiper), molto semplicemente non c’è!

Ma è una ipotesi più che lecita e vediamo il perchè.

Tutto è partito diversi anni fa quando i ricercatori hanno cominciato e vedere, oltre Nettuno, strane coincidenze. In quella fascia di Kuiper, dove orbitano tanti asteroidi, una popolazione di piccoli mondi ghiacciati simili a Plutone, non tutti si comportano allo stesso modo. In diversi hanno un’orbita dall’eccentricità anomala o molto più inclinata rispetto a tutti gli altri. Solo il campo gravitazionale di un pianeta piuttosto massiccio potrebbe produrre questi effetti.

Alcuni sono arrivati ​​a sospettare vi sia un pianeta molte volte la massa della Terra. E così la presenza di “Planet 9” viene più volte richiamata sul palcoscenico del Sistema solare. Nel 2016 furono annunciate le prove indirette della sua esistenza. Ma nessuno lo ha mai visto. Troppo lontano e buio. Si pensa sia una “super-Terra”, da cinque a dieci volte la massa del nostro Pianeta, dovrebbe trovarsi talmente lontano (da almeno 300 volte la distanza Terra-Sole, circa 45 miliardi di chilometri, fino a mille volte tanto) da essere praticamente invisibile a qualsiasi telescopio ottico.

Il problema è che nessuno può immaginare come un pianeta abbastanza grande da farlo possa formarsi così lontano dal sole. 

Ecco che dal momento che dalle osservazioni si deduce in modo indiretto solo la massa dell’oggetto allora un anno fa è venuto il sospetto che possa essere un buco nero primordiale.

Senza dubbio la trama del film di fantascienza “Interstellar” ha pescato proprio da questi dubbi.

Se fosse vero, sarebbe una scoperta sensazionale. 

I buchi neri primordiali ci darebbero una nuova finestra sull’universo primordiale. Potrebbero persino comprendere la materia oscura, la misteriosa sostanza che tiene insieme le galassie. Tutto ciò spiega perché i cosmologi hanno setacciato l’universo per loro. Ma nessuno aveva osato sognare che avremmo potuto trovarne uno nel nostro cortile.

A suggerire questa ipotesi sono stati due fisici: Jakub Scholtz, dell’Università di Durham e James Unwin, dell’università di Chicago e Berkeley.

Lo studio, tuttavia, è stato pubblicato solo sulla piattaforma Arxiv e pare non sia stato nemmeno sottoposto a una rivista per essere valutato da altri esperti (peer review).

Ma la loro teoria sta già facendo il giro del mondo perché è suggestiva e coinvolge un tipo di oggetti ancora solo teorizzati e mai osservati, nemmeno nei loro effetti.

Come premesso in apertura non stiamo parlando di un gigante super massiccio divoratore di stelle e pianeti. Quelli stanno al centro delle galassie. Né di un buco nero di massa stellare che si trovano in giro per il cosmo, magari in coppia con altre stelle. L’ipotesi di Scholtz e Unwin è ancora più suggestiva: un buco nero primordiale. Si tratta di oggetti, per ora solo teorizzati, che potrebbero essersi formati quando l’Universo era ancora giovanissimo e la concentrazione di materia era talmente densa da formare piccoli buchi neri, con masse di molto inferiori a quella necessaria per formarne uno “di massa stellare” (che si origina dal collasso di una stella molto più massiccia del Sole).

Quello che dovremmo cercare è dunque un buco nero davvero minuscolo, dalle cinque alle dieci masse terrestri che starebbero comodamente nel palmo di una mano.

Dieci Terre starebbero dentro ad una palla da bowling!

La loro teoria sta in piedi perché dal momento che è impossibile che nella formazione di una stella come il Sole, un pianeta roccioso così grosso si formi a quella distanza, si ipotizza che l’eventuale pianeta 9 possa essere di origine extrasolare e che sia stato catturato dalla gravitazione solare. Ma questa teoria ha le stesse probabilità che ha un buco nero primordiale di essere catturato nello stesso modo. In astronomia le teorie non osservabili stanno in piedi con le percentuali, quindi una vale l’altra.

Ma come trovarlo visto che si tratta di un oggetto molto più “nero” di un pianeta? Come per tutti i buchi neri, occorre osservare gli effetti su quello che lo circonda. In particolare, materia oscura.
Secondo Unwin e Scholtz, l’alone di materia oscura che lo circonderebbe potrebbe estendersi per otto unità astronomiche (un miliardo e 200 milioni di chilometri, la distanza tra la Terra e Saturno). Come la Relatività generale insegna (e abbiamo sperimentato) la gravità piega anche la luce. Tutta quella materia (oscura e non) dovrebbe dunque generare un effetto di “lente gravitazionale”, deviando l’immagine delle stelle sullo sfondo. Oggetti così piccoli danno origine a microlensing. Il progetto polacco Ogle, a caccia di materia oscura e richiamato nello studio, ne ha osservati diversi.

Secondo l’ipotesi, dunque, i segnali da ricercare per scovare il misterioso intruso ai confini del Sistema solare sono quelli tipici di un buco nero, alte energie come raggi X e raggi gamma.

Il bello è che in Fisica e tra le stelle, per la scienza, non si può mai escludere nulla. Nemmeno ipotesi più ardite come questa del buco nero.

Tuttavia, resterà il dubbio sui calcoli dei due fisici, se il loro lavoro non sarà sottoposto a revisione da altri colleghi.

Come si sono formati questi ipotetici buchi neri primordiali?

(da un articolo di Leah Crane): all’inizio “la luce fu”. 

Poi, apparvero altre macchie scure, la luce le circondava prima di cadervi dentro come acqua in uno scarico. 

Questi sarebbero stati i primi abitanti del nostro universo, strani piccoli buchi neri che si rimpinzavano delle radiazioni fuoriuscite dal big bang.

Man mano che il cosmo si espandeva e si raffreddava, i loro banchetti rallentarono.

Dopo milioni di anni, parte della radiazione che aveva riempito il cosmo lsciò il posto alla materia, che alla fine si è aggregò per formare le prime stelle, pianeti e galassie. 

Nel corso del tempo, alcune stelle sono diventate così grandi che quando hanno esaurito il carburante e sono collassate, si sono trasformate in buchi neri. Ma cosa è successo ai loro lontani antenati dall’alba dei tempi? Forse quei primissimi buchi neri primordiali svanirono (radiazione di Hawking) o forse erano abbastanza grandi da sopravvivere fino al presente. In ogni caso, potrebbero aiutare a risolvere alcuni dei maggiori problemi della cosmologia. 

Sempre che siano mai stati lì.

Commentato da Luigi Borghi.

Link correlati

https://www.lescienze.it/news/2019/10/09/news/buco_nero_primordiale_sistema_solare_trans-nettuniano-4577376/

https://www.universoastronomia.com/2020/07/13/pianeta-nove-e-un-buco-nero-primordiale/

Un enorme radiotelescopio nella parte nascosta della Luna.

C’è voluto mezzo secolo per superare la risoluzione e la sensibilità del radiotelescopio di Arecibo a Portorico. Ci ha pensato il FAST cinese di 500 metri e la natura con il tornado che ha definitivamente messo la parola fine ad Arecibo (forse).

Questi radiotelescopi terrestri hanno tutti un paio di problemi abbastanza invadenti.

Il primo: le emissioni elettromagnetiche provocate dall’uomo e dalle sue attività. Ovviamente queste intrusioni, questi “disturbi” vengono filtrati ed esclusi dal segnale che si vuole realmente vedere ma questo comporta comunque una riduzione delle loro capacità ed anche, a volte, sovrapposizione e ambiguità del risultato.

Secondo: la barriera degli strati alti della ionosfera che riflette verso l’esterno le onde lunghe provenienti dallo spazio. La stessa che, dal basso, consente ad un radioamatore di arrivare in tutto il mondo utilizzando appunto la riflessione verso il basso che in questo caso è di aiuto.

Ma c’è un posto qui vicino a noi (abbastanza) che è “pulito” da elettromagnetismo androgeno o di origine artificiale provocato da tecnologia terrestre: la faccia nascosta della Luna!

Un sogno pensato e ridiscusso da molto tempo, ma ora la NASA ha cominciato ad investire in questo progetto per arrivare ad una proposta fattibile ed economicamente accettabile.

Il concetto iniziale della NASA potrebbe vedere dei robot appendere una rete metallica in un cratere sul lato più lontano della Luna, creando un potentissimo radiotelescopio in grado di sondare lo spazio fino all’alba dell’universo. 

Dopo anni di sviluppo, il progetto Lunar Crater Radio Telescope (LCRT) ha ricevuto $ 500.000 per supportare il lavoro aggiuntivo mentre entra nella Fase II del programma Innovative Advanced Concepts (NIAC) della NASA. 

Questa illustrazione mostra un radiotelescopio concettuale del cratere lunare sul lato opposto della Luna.

L’obiettivo principale dell’LCRT sarebbe quello di misurare le onde radio a lunga lunghezza d’onda generate in un periodo che è durato alcune centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, ma prima che le prime stelle iniziassero a lampeggiare. 

I cosmologi sanno poco di questo periodo, ma le risposte ad alcuni dei più grandi misteri della scienza potrebbero essere rinchiuse nelle emissioni radio a lunga lunghezza d’onda generate dal gas che avrebbe riempito l’universo durante quel periodo.

“Anche se non c’erano stelle, c’era una grande quantità di idrogeno durante quel breve periodo dell’universo – idrogeno che alla fine sarebbe servito come materia prima per le prime stelle”, ha detto Joseph Lazio, radioastronomo del Jet Propulsion Laboratory della NASA nel sud della California e membro del team LCRT. “Con un radiotelescopio sufficientemente grande al largo della Terra, potremmo seguire i processi che avrebbero portato alla formazione delle prime stelle, forse anche trovare indizi sulla natura della materia oscura”.

I radiotelescopi sulla Terra non possono sondare questo periodo misterioso perché le onde radio a lunga lunghezza d’onda di quell’era vengono riflesse da uno strato di ioni ed elettroni nella parte superiore della nostra atmosfera, la ionosfera. 

Le emissioni radio casuali della nostra rumorosa civiltà possono interferire anche con la radioastronomia, soffocando i segnali più deboli.

Ma sul lato più lontano della Luna, non c’è atmosfera che rifletta questi segnali e la Luna stessa bloccherebbe le “chiacchiere” radio dell’umanità sull Terra. 

Il lato lunare più lontano potrebbe essere la prima postazione fissa per condurre studi senza precedenti sull’universo primordiale.

Saptarshi Bandyopadhyay, un tecnologo di robotica al JPL e ricercatore capo del progetto LCRT ha detto: “I radiotelescopi sulla Terra non possono vedere le onde radio cosmiche di circa 10 metri o più (< 30 MHz) a causa della nostra ionosfera, quindi c’è un’intera regione dell’universo che semplicemente non possiamo vedere. Ma le idee precedenti di costruire un’antenna radio sulla Luna erano molto complesse e impegnative in termini di risorse, quindi siamo stati costretti a inventare qualcosa di diverso”.

Costruire telescopi con i robot.

Per essere sensibile alle lunghe lunghezze d’onda radio, l’LCRT dovrebbe essere enorme. 

L’idea è di creare un’antenna di oltre 1 chilometro di larghezza in un cratere di oltre 3 chilometri di larghezza. 

I più grandi radiotelescopi a parabola singola sulla Terra, come il telescopio con apertura di 500 metri (FAST) in Cina e l’ormai inoperativo di 305 metri di larghezza ad Arecibo a Porto Rico – sono stati costruiti all’interno di depressioni naturali simili a scodelle nel paesaggio per fornire una struttura di supporto.

Questa classe di radiotelescopi utilizza migliaia di pannelli riflettenti sospesi all’interno della depressione per rendere l’intera superficie dell’antenna riflettente alle onde radio. Il ricevitore si sospende quindi tramite un sistema di cavi in ​​un punto focale sopra la parabola, ancorato da torri al perimetro della parabola, per misurare le onde radio che rimbalzano sulla superficie curva sottostante. 

Ma nonostante le sue dimensioni e complessità, anche FAST non è sensibile alle lunghezze d’onda radio più lunghe di circa 4,3 metri (< 69 MHz).

Il team di ingegneri, robotisti e scienziati del JPL, ha condensato e concentrato questa classe di radiotelescopi fino alla sua forma più elementare. Il loro concetto elimina la necessità di trasportare materiale pesantemente proibitivo sulla Luna e utilizza robot per automatizzare il processo di costruzione. 

Invece di utilizzare migliaia di pannelli riflettenti per focalizzare le onde radio in arrivo, l’LCRT sarebbe costituito da una sottile rete metallica al centro del cratere. 

Un veicolo spaziale consegnerebbe la rete e un lander separato depositerà rover DuAxel per costruire la parabola per diversi giorni o settimane.

DuAxel, un concetto robotico in fase di sviluppo presso JPL, è composto da due rover ad asse singolo (chiamati Axel) che possono sganciarsi l’uno dall’altro ma rimanere collegati tramite un cavo. Una metà fungerebbe da ancora sul bordo del cratere mentre l’altra si cala in corda doppia per costruire l’edificio. In questo filmato lo vediamo all’opera nel deserto del Mojave in California, due ore di auto a sud di Las Vegas.

La superficie della Luna è coperta di crateri, e una delle depressioni naturali potrebbe fornire una struttura di supporto per un piatto del radiotelescopio. Come mostrato in questa illustrazione, i rover DuAxel potevano ancorare la rete metallica dal bordo del cratere.

Credits: Vladimir Vustyansky

“DuAxel risolve molti dei problemi associati alla sospensione di un’antenna così grande all’interno di un cratere lunare”, ha detto Patrick Mcgarey, un tecnologo di robotica al JPL e membro del team dei progetti LCRT e DuAxel. “I singoli rover Axel possono entrare nel cratere mentre sono legati, collegarsi ai cavi, applicare tensione e sollevare i cavi per sospendere l’antenna”.

In questa illustrazione, il ricevitore può essere visto sospeso sopra il piatto tramite un sistema di cavi ancorati al bordo del cratere.

Credits: Vladimir Vustyansky.

Identificare le sfide.

Affinché il team possa portare il progetto al livello successivo, utilizzerà i finanziamenti della Fase II del NIAC per affinare le capacità del telescopio e i vari approcci di missione identificando le sfide lungo il percorso.

Una delle maggiori sfide del team durante questa fase è la progettazione della rete metallica. 

Per mantenere la sua forma parabolica e la precisa spaziatura tra i fili, la rete deve essere resistente e flessibile, ma abbastanza leggera da poter essere trasportata. 

La maglia deve anche essere in grado di sopportare i mostruosi cambiamenti di temperatura sulla superficie della Luna – da un minimo di – 173 gradi Celsius a un massimo di + 127 gradi Celsius – senza deformazioni o cedimenti.

Un’altra sfida è identificare se i rover DuAxel devono essere completamente automatizzati o se sia necessario coinvolgere un operatore umano nel processo decisionale. 

La costruzione DuAxels potrebbe essere completata anche da altre tecniche di costruzione? 

Sparare arpioni sulla superficie lunare, ad esempio, può ancorare meglio la rete dell’LCRT, richiedendo meno robot.

Inoltre, per ora, il lato lunare è “radio silenzioso”, ciò però potrebbe cambiare in futuro. 

L’agenzia spaziale cinese ha attualmente una missione che esplora quel lato lunare lontano, dopotutto, e l’ulteriore sviluppo della superficie lunare potrebbe avere un impatto su possibili progetti di radioastronomia.

Per i prossimi due anni, il team LCRT lavorerà per identificare anche altre sfide e domande. Se avranno successo, potranno essere selezionati per un ulteriore sviluppo.

Patrick Mcgarey ha detto: “Lo sviluppo di questo concetto potrebbe produrre alcune scoperte significative lungo il percorso, in particolare per le tecnologie di distribuzione e l’uso di robot per costruire strutture gigantesche al largo della Terra. Sono orgoglioso di lavorare con questo team diversificato di esperti che ispirano il mondo a pensare a grandi idee che possono fare scoperte rivoluzionarie sull’universo in cui viviamo”.

NIAC è finanziato dalla direzione della missione della tecnologia spaziale della NASA, che è responsabile dello sviluppo delle nuove tecnologie e capacità trasversali necessarie all’agenzia.

Commentato da Luigi Borghi.

Link correlati

https://www.nasa.gov/feature/jpl/lunar-crater-radio-telescope-illuminating-the-cosmic-dark-ages

https://www.spacedaily.com/reports/Illuminating_the_Cosmic_Dark_Ages_with_a_Lunar_radio_telescope_999.html

Circolo di Osservazione Scientifico-tecnologica di Modena. Missione: divulgare scienza a tutti