Così Perseverance raccoglierà 43 pezzi di Marte

Il rover è dotato di un sistema di prelievo dei campioni

Nonostante questa pandemia abbia costretto gran parte del nostro pianeta ad un isolamento forzato ma necessario, la ricerca e l’esplorazione non si sono fermate, e un gruppo di Ingegneri e Tecnici del JPL hanno continuato coraggiosamente a lavorare in nome della Scienza.
Dopo oltre quarant’anni dalle sonde Viking1 e 2, e dopo le strabilianti imprese di Spirit, Oppurtunity e dei sette anni di ricerca del rover Curiosity, la nasa fa uno step in avanti con la sonda Perseverance che verrà lanciata su Marte tra il 20 luglio e il 6 agosto di quest’anno.
Finita di assemblare qualche giorno fa, con la scelta che ripeto e sottolineo coraggiosa di continuare il lavoro di preparazione in un momento in cui la pandemia è ancora in atto, il JPL si appresta ad effettuare l’invio sul pianeta rosso di un altro rover che ricorda per forma e dimensioni Curiosity, ma che ha tantissime novità in termini di analisi del suolo marziano.
Quindi, come sono solito dire; ne vedremo delle belle……

Commentato da: Ciro Sacchetti.

Inserimento dei 39 tubi porta campione nel ventre del rover. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

Perseverance lo è di nome e di fatto, il rover del programma Nasa Mars 2020 programmato per il lancio fra poco più di 40 giorni – nella finestra dal 17 luglio al 5 agosto 2020, per la precisione. Ambizioso e determinato come la squadra di ingegneri e scienziati del Jet Propulsion Laboratory della Nasa che, nonostante le difficoltà di questi mesi, lavora per completare il più complesso, sofisticato e incontaminato meccanismo mai concepito per lo spazio: il Sample Caching System – letteralmente, il sistema di raccolta dei campioni marziani. L’obiettivo della missione è di raccogliere almeno una dozzina di campioni e riportarli sulla Terra nell’arco di una decina d’anni.
Dopo sette anni di lavoro preparatorio, il 20 maggio scorso, presso il Kennedy Space Center in Florida, il team di Perseverance ha caricato gli ultimi 39 dei 43 tubi di campionamento a bordo del rover assieme al sistema di stoccaggio – i primi quattro erano stati precedentemente integrati in altre sedi. L’integrazione del sistema segna una tappa fondamentale verso il lancio del rover.
Sulle orme degli astronauti di Apollo 11, che per la prima volta hanno portato a Terra un campione di suolo proveniente da un altro corpo celeste, il Sample Caching System ha lo scopo di raccogliere e conservare i primi campioni di roccia provenienti da un altro pianeta. Il tutto però con la piccola limitazione di non poter contare su braccia e gambe, diversamente dagli astronauti della missione Apollo Neil Armstrong e Buzz Aldrin.

Una fase del test del Sample Caching System. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

È un lavoro di squadra anche quello che si appresta a compiere il Sample Caching System di Perseverance, che raccoglie sotto un unico nome la collezione e collaborazione di diversi robot. Situate nella parte anteriore del rover, le unità che si occuperanno della raccolta di campioni di suolo marziano sono tre.
La prima è avvitata alla parte anteriore del telaio del rover: si tratta un braccio robotico di due metri a cinque snodi munito di una grande torretta che include un trapano a percussione rotante per raccogliere campioni del nucleo di roccia marziana e regolite – roccia sgretolata dalla granulometria eterogenea e polvere.
Il secondo robot sembra un piccolo disco volante costruito nella parte anteriore del rover. Si tratta di un carosello, ed è l’intermediario fondamentale per tutte le transazioni dei campioni di Marte: dapprima fornirà le punte di trapano e i tubi di campionamento vuoti al trapano e successivamente sposterà i tubi pieni di roccia nel telaio del rover per la valutazione e l’elaborazione.
Il terzo e ultimo robot del Sample Caching System è il braccio di manipolazione del campione – lungo mezzo metro e denominato dal team “braccio T. Rex”. Situato nella pancia del rover, raccoglie i tubi di campionamento trasportati dal carosello, spostando le provette del campione tra le stazioni di stoccaggio e di documentazione.
Per poter funzionare, l’intero sistema prevede una coordinazione temporale svizzera fra le varie componenti. Un orologio a più di tremila ingranaggi. «Sembra molto, ma si comincia a capire la necessità di tale complessità se si considera che il Sample Caching System ha il compito di perforare autonomamente la roccia di Marte, estrarre i campioni del nucleo intatti e poi sigillarli ermeticamente in vasi ipersterili che sono essenzialmente privi di qualsiasi materiale organico di origine terrestre che potrebbe alterare le analisi future», spiega Adam Steltzner, ingegnere capo per la missione Mars 2020 Perseverance presso il Jpl. «In termini di tecnologia, è il meccanismo più complicato e sofisticato che abbiamo mai costruito, testato e preparato per il volo spaziale».
Operativamente, dopo aver raccolto un cilindro intatto di roccia marziana tramite un piccolo carotaggio, il braccio porta il campione verso carosello – il secondo robot – che lo preleva e lo trasferisce all’interno del rover. Qui interviene un altro piccolo apparecchio, che sposta il campione attraverso lo spazio di valutazione, dove vengono prese alcune immagini, viene sigillato e infine depositato nel sito di archiviazione. Il tutto avviene in modo automatico e indipendente, nell’arco di alcune ore.
Come ogni componente del rover, il Sample Caching System è stato creato in due versioni, un modello di prova che rimarrà a terra e quello che volerà verso Marte. «Il modello ingegneristico di prova è identico al modello di volo, ed è nostro compito cercare di romperlo», dice Kelly Palm, l’ingegnere responsabile dell’integrazione del sistema e dei test di Perseverance al JPL. «Lo facciamo perché preferiamo vedere le cose consumarsi o rompersi sulla Terra piuttosto che su Marte. Così mettiamo alla prova il modello ingegneristico per comprendere meglio come usare il suo gemello di volo su Marte».
Non lasciare nulla al caso significa, per il team, usare diverse rocce per simulare diversi tipi di terreno marziano. Esse vengono trivellate da varie angolazioni per simulare qualsiasi situazione in cui il rover potrebbe trovarsi e qualsiasi condizione nella quale il team scientifico potrebbe voler raccogliere un campione.

Di: Valentina Guglielmo 04/06/2020

Link: https://www.media.inaf.it/2020/06/04/perseverance-raccogli-campioni/ 

Dal transistor grosso come un grano di mais a quello grosso come pochi atomi..

Un ragazzo che oggi esce dalla università, da un istituto tecnico o da un liceo, non rimarrà stupito da una notizia del genere. Ma uno come me che i transistor li ha maneggiati uno ad uno, prima quelli al germanio (un po’ complicato da pilotare) e poi quelli al silicio, rimane a bocca aperta.

Come progettista hardware ho vissuto tutto il cambiamento: dalle valvole termoioniche degli anni 50, ai transistor degli anni 60, poi i circuiti integrati degli anni 70, i microprocessori degli anni 80 per terminare con i microcontrollori degli anni 90 del secolo scorso. Ho finito con un Arduino!

Da sempre, nella progettazione di automazione e computing, c’è stato il problema della memoria ritentiva.

La memoria ritentiva ideale deve essere: velocissima, ad accesso casuale (cioè una RAM), piccolissima, consumi prossimi allo zero e, naturalmente, ricordarsi di ciò che ha in testa anche dopo una perdita di alimentazione.

Questi erano i miei transistor negli anni Sessanta. (… ma non si ricordavano di nulla!)

(Prodotti dalla Texas Instruments, si vede il profilo dello stato USA sul contenitore)

Di memorie ne sono state inventate tantissime, basate su diverse tecnologie, ma tutte quante dovevano sacrificare una o più di queste caratteristiche. Ai tempi del progetto Apollo (metà anni Sessanta), la soluzione fu la memoria a nuclei in ferrite (core) che era veloce (per gli standard di allora) era ad accesso casuale, ma non era di certo piccola. I singoli bit (gli anellini di ferrite che stazionavano all’incrocio dei cavi di indirizzo e di “sense”) si potevano vedere ad occhio nudo. Si è passato poi alle RAM CMOS che avevano tutte queste caratteristiche (anche se molto più voluminose delle DRAM) ma mantenevano i dati solo perché avevano una batteria che gli garantiva l’alimentazione.

Finita la batteria, addio memoria.

Oggi invece la più soddisfacente soluzione è la combinazione Flash memory (che hanno sostituito gli Hard Disk) con le DRAM. Le prime ritengono i dati anche in mancanza di tensione (onestamente non si sa ancora bene per quanto tempo, ma probabilmente più di un decennio), ma li restituiscono non in modo random ma seriale. Insomma, ci vuole qualche decina di secondi di pazienza. Poi questi dati vengono memorizzati nella DRAM e a questo punto si va a scheggia! C’è da aggiungere che le Flash memory non “godono” quando le scrivi e con l’andar del tempo ti piantano in asso. (mediamente su un PC, meno di dieci anni)

L’articolo che vi propongo oggi invece vi parla dei risultati di una ricerca su un principio che già si conosceva da tempo e cioè la Commutazione resistiva non volatile (NVRS).

Queta tecnologia, nota anche come memristor, consiste sostanzialmente in un componente elettronico passivo a due terminali (come una resistenza, un condensatore o una induttanza), ma che può cambiare la sua resistenza interna e ricordarsi di averlo fatto!

Sebbene il memristore fosse stato teorizzato e descritto sin dal 1971 da parte di Leon Chua dell’Università di Berkeley, in un articolo pubblicato su IEEE Transactions on Circuit Theory, è rimasto un dispositivo teorico fino a pochi anni fa.

Si tratta di un bipolo in cui una variazione di carica elettrica, dà luogo ad una variazione di flusso magnetico e quindi ad una tensione, che dovrebbe localizzarsi ai capi del componente. (Fonte Wikipedia).

Quando la tensione viene fornita attraverso gli elettrodi di platino, gli atomi di Tio2 si diffonderanno a destra o a sinistra nel materiale in base alla polarità della tensione che rende più sottile o più spesso, quindi dà una trasformazione in resistenza.

Il memristore ha la proprietà di “ricordare” lo stato elettronico e di rappresentarlo mediante segnali analogici. Un circuito di questo tipo consentirebbe di realizzare calcolatori con accensione istantanea, senza la necessità di ricaricare il sistema operativo a ogni avvio.

Il circuito, infatti, conserva l’informazione anche in assenza di corrente elettrica, quando il calcolatore è spento.

La capacità di memorizzare segnali analogici anche nelle memorie allo stato solido non volatili consentirebbe di memorizzare ed elaborare una mole di dati molto maggiore di quella trattata con i circuiti digitali, in grado di rappresentare solo due stati (0 ed 1).

Il memristore apre a una nuova generazione di memorie e di potenze di calcolo.

Promette una capacità di circa 25 terabit per centimetro quadrato. Questa è una densità di memoria 100 volte superiore per strato rispetto ai dispositivi di memoria flash disponibili in commercio.

La fine delle flash memory e dei dischi rigidi.

Nell’ultimo decennio si sono avute notevoli progressi nei materiali di commutazione resistiva non volatili come gli ossidi metallici e gli elettroliti solidi. Si è creduto a lungo che le correnti di perdita avrebbero impedito l’osservazione di questo fenomeno per strati isolanti nanometrici-sottili. Tuttavia, la recente scoperta della commutazione resistiva non volatile in monostrati bidimensionali di dicalcogenide metallica di transizione e nitruro di boro esagonale le strutture sandwich (note anche come atomristors) hanno confutato questa convinzione e aggiunto una nuova dimensione dei materiali grazie ai vantaggi del ridimensionamento delle dimensioni.

L’imaging atomistico e la spettroscopia rivelano che la sostituzione del metallo in un posto vacante di zolfo si traduce in un cambiamento non volatile nella resistenza, che è confermato da studi computazionali su strutture di difetti e stati elettronici.

Questi risultati forniscono una comprensione atomistica della commutazione non volatile e aprono una nuova direzione nell’ingegneria dei difetti di precisione, fino a un singolo difetto, verso il raggiungimento del più piccolo memristor per applicazioni in memoria ultra-densa, calcolo neuromorfico e sistemi di comunicazione a radiofrequenza.

Commentato da Luigi Borghi

Eccovi l’articolo tradotto.

https://www.sciencedaily.com/releases/2020/11/201123161014.htm https://qnewshub.com/technology/worlds-smallest-atom-memory-unit-created/

È stata creata la più piccola unità di memoria retentiva atomica al mondo.

Da Staff Writers Austin TX. (SPX) 27 novembre 2020.

Chip più veloci, più piccoli, più intelligenti e più efficienti dal punto di vista energetico per tutto, dall’elettronica di consumo ai big data, all’informatica ispirata al cervello potrebbero presto essere in arrivo dopo che gli ingegneri dell’Università del Texas ad Austin hanno creato il dispositivo di memoria più piccolo di sempre.

E nel processo, hanno capito la dinamica fisica che sblocca dense capacità di archiviazione della memoria per questi piccoli dispositivi.

La ricerca pubblicata di recente su Nature Nanotechnology si basa su una scoperta di due anni fa, quando i ricercatori hanno creato quello che allora era il dispositivo di archiviazione della memoria più sottile. In questo nuovo lavoro, i ricercatori hanno ridotto ulteriormente le dimensioni, riducendo l’area della sezione trasversale a un solo nanometro quadrato.

Ottenere un controllo sulla fisica che impacchetta la capacità di archiviazione della memoria densa in questi dispositivi ha permesso di renderli molto più piccoli. Difetti o buchi nel materiale forniscono la chiave per sbloccare la capacità di archiviazione della memoria ad alta densità.

“Quando un singolo atomo metallico aggiuntivo entra in quel buco su scala nanometrica e lo riempie, conferisce parte della sua conduttività nel materiale, e questo porta a un cambiamento o a un effetto memoria”, ha detto Deji Akinwande, professore presso il Department of Electrical and Computer Engineering.

Sebbene abbiano usato il disolfuro di molibdeno – noto anche come MoS2 – come nanomateriale primario nel loro studio, i ricercatori pensano che la scoperta potrebbe applicarsi a centinaia di materiali atomicamente sottili correlati.

La corsa per realizzare chip e componenti più piccoli è tutta legata alla potenza ed alla convenienza. Con processori più piccoli, è possibile creare computer e telefoni più compatti. Ma ridurre i chip riduce anche il loro fabbisogno energetico e aumenta la capacità, il che significa dispositivi più veloci e intelligenti che richiedono meno energia per funzionare.

“I risultati ottenuti in questo lavoro aprono la strada allo sviluppo di applicazioni di generazione futura che interessano il Dipartimento della Difesa, come lo storage ultra-denso, i sistemi di calcolo neuromorfico, i sistemi di comunicazione a radiofrequenza e altro ancora”, ha dichiarato Pani Varanasi, program manager del U.S. Army Research Office, che ha finanziato la ricerca.

Il dispositivo originale – soprannominato dal team di ricerca “atomristor” – era all’epoca il dispositivo di memorizzazione più sottile mai registrato, con un singolo strato atomico di spessore. Ma ridurre un dispositivo di memoria non significa solo renderlo più sottile, ma anche costruirlo con un’area di sezione trasversale più piccola.

“Il Santo Graal scientifico per il ridimensionamento sta scendendo a un livello in cui un singolo atomo controlla la funzione di memoria, e questo è ciò che abbiamo realizzato nel nuovo studio”, ha detto Akinwande.

Il dispositivo di Akinwande rientra nella categoria dei memristors, una popolare area di ricerca sulla memoria, incentrata sui componenti elettrici con la capacità di modificare la resistenza tra i suoi due terminali senza la necessità di un terzo terminale nel mezzo noto come gate. Ciò significa che possono essere più piccoli dei dispositivi di memoria di oggi e vantare una maggiore capacità di archiviazione. Questa versione del memristor – sviluppata utilizzando le strutture avanzate dell’Oak Ridge National Laboratory – promette una capacità di circa 25 terabit per centimetro quadrato. Questa è una densità di memoria 100 volte superiore per strato rispetto ai dispositivi di memoria flash disponibili in commercio.

De carbonizzare il mondo senza limitare la produzione di energia.

Ridurre fino ad eliminare completamente la produzione di gas serra è un dovere indiscutibile che avremmo dovuto onorare molto tempo fa. Siamo partiti tardi a preoccuparci del surriscaldamento globale ed il motivo è duplice: de carbonizzare la produzione costa parecchio e poi ancora oggi vi sono categorie di persone che negano tale necessità (per convenienza, per ignoranza, per protagonismo, ecc.)

Le alternative che abbiamo oggi sono le fonti rinnovabili pulite (sole, vento, mare) ma sono intermittenti e non sufficienti per garantire la crescita in un mondo che, nei prossimi trent’anni, arriverà a 10 miliardi di anime.

La soluzione del problema esiste e sta nello sfruttamento della energia nucleare attraverso il processo di fusione. Al contrario delle centrali a fissione, la fusione sfrutta un processo assolutamente pulito ed innocuo per l’ambiente.

Un obiettivo difficile ma che garantirà energia pulita per tutti in quantità e rivoluzionerà positivamente il modo di produrre, viaggiare, vivere.

Per chi vuole approfondire questo argomento consiglio questo filmato https://youtu.be/85LNFER9MhQ dove, in 15 minuti, cerco di esaminare tutti gli aspetti della produzione di energia elettrica pulita nell’immediato futuro.

Il grosso, grossissimo problema tecnico nello sviluppo di reattori nucleari a fusione controllata sta nella necessità di mantenere “confinato”, cioè lontano dalle pareti del contenitore, il gas ionizzato. Un gas che per poter fondere i suoi atomi in uno altro elemento deve raggiungere temperature di decine di milioni di gradi. Parliamo di deuterio e trizio che fondendo si trasformano in elio di massa minore della somma dei due atomi di partenza, con un rilascio enorme di energia.

Sono in fase di sperimentazione diverse tecniche che vanno dal confinamento inerziale a quello magnetico. Ed è di quest’ultimo di cui vi voglio parlare oggi, perché vi sono delle novità.

La notizia di oggi infatti arriva da Cambridge, Mass. Dalla Commonwealth Fusion Systems (CFS) e Plasma Science and Fusion Center (PSFC) del MIT

La CFS ha annunciato il successo del test del magnete superconduttore ad alta temperatura (HTS) più potente al mondo, la tecnologia chiave per un dispositivo che sbloccherà la strada per l’energia da fusione commerciale pulita.

Fotografia di un HTS.

Il test fondamentale, condotto presso il Plasma Science and Fusion Center del MIT, ha dimostrato che il magnete costruito su larga scala può raggiungere un campo magnetico sostenuto di oltre 20 tesla, sufficiente per consentire al dispositivo tokamak compatto di CFS, chiamato SPARC (un prototipo del tutto simile a ITER, quello che si sta sviluppando con un consorzio internazionale in Francia a Cadarache, vicino a Marsiglia), di ottenere energia netta dalla fusione (cioè il punto di parità dalla fusione dove l’energia immessa è uguale o minore di quella resa dal processo) . Un vero primato!

Spaccato dello SPARC.

Bob Mumgaard, CEO di CFS, ha affermato:  “Questo magnete da record è il culmine degli ultimi tre anni di lavoro e offrirà al mondo un chiaro percorso verso l’energia da fusione per la prima volta. Il mondo ha bisogno di una tecnologia fondamentalmente nuova che supporterà gli sforzi per decarbonizzare in una sequenza temporale che possa mitigare i cambiamenti climatici. Questo test del nostro magnete dimostra che abbiamo quella tecnologia e siamo sulla buona strada per produrre energia pulita e illimitata per il mondo intero”.

CFS e PSFC del MIT hanno utilizzato nuovi superconduttori ad alta temperatura (HTS) disponibili in commercio per costruire i magneti che consentiranno campi magnetici significativamente più forti in un dispositivo di fusione chiamato tokamak. 

Con il superconduttore a 20 gradi Kelvin e con 40.000 Ampere si raggiungono i 20 Tesla di campo magnetico.

I tokamak esistenti si affidano a dispositivi molto più voluminosi per tentare di confinare il plasma supercaldo, i magneti HTS consentono invece un approccio ad alto campo che consentirà a CFS di raggiungere il punto di parità dalla fusione con un dispositivo sostanzialmente più piccolo, a basso costo e con tempistiche più rapide.

Dennis Whyte, direttore del PSFC del MIT e co-fondatore di CFS ha affermato: “Questo rivoluzionario magnete apre un’opportunità di trasformazione e accelera ampiamente il processo per arrivare all’energia di fusione per la produzione commerciale di energia elettrica”.

I tokamak sono dispositivi a forma di ciambella che utilizzano magneti per controllare e isolare un plasma in cui avviene la fusione. Sebbene nessun dispositivo di fusione debba ancora ottenere energia netta, i tokamak si sono avvicinati di più con più di 160 tokamak costruiti e gestiti con successo in tutto il mondo. In passato, i tokamak utilizzavano magneti superconduttori a bassa temperatura che richiedevano fossero di dimensioni enormi per creare il campo magnetico necessario per tentare di ottenere l’energia netta. I magneti CFS HTS consentiranno campi magnetici significativamente più forti e, di conseguenza, tokamak significativamente più piccoli. Le centrali elettriche a fusione avranno vantaggi rispetto alle centrali elettriche tradizionali a fissione, in quanto saranno prive di carbonio, trasportabili, avranno una fornitura di carburante illimitata e sono intrinsecamente più sicure di altri tipi di impianti.  Si possono spegnere e riaccendere, non producono scorie radioattive, non possono scoppiare e non producono materiale adatto a bombe sporche. Il combustibile non è radioattivo.

Questa tecnologia del magnete HTS verrà successivamente utilizzata in SPARC, che è in costruzione a Devens, nel Massachusetts, e sulla buona strada per dimostrare l’energia netta dalla fusione entro il 2025. SPARC aprirà la strada alla prima centrale elettrica a fusione commercialmente valida chiamata ARC. 

A proposito di CFS

CFS è sulla buona strada per portare sul mercato la tecnologia dell’energia da fusione. CFS è stato creato dal MIT e combina i decenni di esperienza di ricerca del Plasma Science and Fusion Center del MIT con l’innovazione e la velocità del settore privato. Supportato dai principali investitori mondiali in tecnologie energetiche innovative, CFS è in una posizione unica per fornire il percorso più veloce verso l’energia da fusione commerciale. Per ulteriori informazioni sulla CFS, visitare www.cfs.energy .

Commentato da Luigi Borghi.

Link correlati:

https://cfs.energy/news-and-media/cfs-commercial-fusion-power-with-hts-magnet

Rilascio del MIT:  https://news.mit.edu/2021/MIT-CFS-major-advance-toward-fusion-energy-0908

Easy Moon

Un racconto breve di Roberto Castagnetti inaugura le nostre CosmoStorie

20 luglio 2029
Il gran giorno era arrivato!
I componenti del direttivo del COSMo erano nella grande sala della casa di Davide, magneticamente attratti dalle immagini trasmesse dalla nuova smart TV 16k da 120 pollici appena acquistata per assaporare degnamente l’evento.
Il silenzio era rotto solo dai discreti movimenti delle mandibole che, meccanicamente, trituravano i biscotti portati poco prima da Savina.
«Ragazzi!!»
«Ecco qua i miei tortelli!!»
«Ho usato la tradizionale marmellata di mele cotogne di Modena che ho trovato …»
«Ssshhhhhh!!!» senza voltarsi, tutti gli spettatori sibilarono a Savina la loro richiesta di silenzio.
«Ops … scusate! … ma è già il momento?»
«Si» fu la laconica risposta di suo marito Davide.
«Lo sgancio dalla stazione lunare Gateway è stato perfetto» sentenziò Luigi.
«La manovra di allontanamento richiederà almeno una ventina di minuti» osservò Leonardo.
«Guardate che spettacolo il sistema di aggancio!» esclamò, eccitato, Gabriele
«Che meraviglia vedere la Terra stagliarsi dietro alla stazione Gateway» disse, sognante, Roberto.
«Mi piacerebbe vedere in diretta i dati della telemetria … magari li trasmettono» dichiarò Alessandro.

«Lunar module undocked»
«Telemetry ok»
«Parameters within tolerances» dichiarò con calma Ciro, girandosi verso gli altri 3 membri dell’equipaggio del modulo lunare ”Amerigo Vespucci”.
Era molto emozionato per avere avuto l’onore di poter fare una lettura dati utile alla missione. 
La missione Easy Moon stava per entrare nel vivo.
Ciro ripensò agli incredibili due anni precedenti, a quando si era iscritto nel 2027, quasi per scherzo, al bando per la selezione di un componente “particolare” della missione Easy Moon.    
La missione doveva dimostrare che anche un normale cittadino poteva essere mandato sulla Luna, allo scopo di iniziare la nuova fase di colonizzazione del nostro satellite e degli altri habitat extraterrestri.
La passione di Ciro era stata uno schiacciasassi e gli altri concorrenti per quel posto vennero agevolmente sbaragliati.
Ora era lì, a bordo del modulo lunare realizzato dalla Blue Origin mentre iniziava la procedura di immissione nella traiettoria di allunaggio.
Ancora rimaneva stupito dagli spazi di quel mezzo.
Erano lontani i tempi dei LEM delle missioni Apollo e viaggiare nello spazio era ormai diventata una esperienza … comoda.

Un breve intermezzo pubblicitario interruppe la diretta su YouTube e i compagni di Ciro, a più di 380.000 chilometri di distanza, si buttarono sul vassoio appena portato da Savina e ripristinarono le scorte dei propri piattini.
Sorridente, Savina, ritornò in cucina
«Mi raccomando!!! Chiamatemi quando stanno per allunare!»
«mmmhhh … si … si» bofonchiò Davide mentre i suoi occhi, insieme a quelli degli altri spettatori, si risintonizzarono sulla diretta video che era riapparsa.

«Ciro … is everything OK?» chiese il comandante Legweak.
«YES SIR!»
«VA TUTTO BENISSIMO!!!» esclamò entusiasticamente Ciro.
«ROG!»
Il comandante sorrise e riprese a controllare i dati sullo schermo.

«Gmpfgn … ormai … gnaf gnaf … ormai ci … sghnmmm scrunch gnaf … siamo … Savina!!! Sono buonissimi questi tortelli!!!»
«Grazie Robby!!!» rispose Savina dalla cucina.
«Accensione motore principale tra … cinque, quattro, tre, due, uno …»  contò solennemente Leonardo.

La voce del comandante Legweak scandì: “Five, four, three, two, one …»
Ma, anziché la rassicurante vibrazione del motore acceso si udì, improvviso, l’angosciante ululato di un segnale d’allarme.
«Ok, Houston, we’ve had a problem here»
La frase raggelò Ciro.
Mai avrebbe voluto sentirla.
Ripensò all’incubo dell’Apollo 13 e osservò, impotente, l’equipaggio mentre cercava di reperire tutte le informazioni possibili per gestire quella che sembrava una grave emergenza.
Nelle simulazioni era l’allarme peggiore e quando si presentava il risultato era spesso l’aborto missione.
«Main engine is gone.»
All’udire questa frase, Ciro trasalì …
«Il motore principale? … oddio …» pensò, guardandosi bene dal dire qualsiasi cosa in quanto era addestrato a non interferire assolutamente con l’equipaggio durante situazioni di quel tipo.
«Restart procedure started»
Ma non accadde nulla …
Le comunicazioni con la stazione Gateway e la sala controllo sulla Terra si fecero più fitte.
La Luna iniziò ad ingrandirsi.
Ciro iniziò a mordersi nervosamente il labbro.

«Qualcosa non va!!!» Gridò Luigi.
«Hanno staccato la diretta … oddio! … Ma che succede?» domandò, angosciato, Roberto.
«Non si è acceso il motore principale!!!» gridò Gabriele.
«Ehm … ehm … staranno … ehm … attivando … ehm … le procedure … ehm … di … ehm … aborto missione» disse, preoccupato, Davide.
«La vedo male…», osservò, cupo, Leonardo.
«Si … anch’io», confermò Alessandro.
«Oddio … ma che è successo?» Fu la domanda di Savina che si era precipitata dalla cucina.
«Un casino…» fu la risposta corale.

A Houston, Susanna e Sofia osservavano impietrite il loro schermo televisivo improvvisamente oscurato.
Cercarono qualche spiegazione negli occhi degli altri famigliari degli astronauti con cui condividevano la sala tv accanto alla sala controllo missione… ma ottennero solamente un analogo sguardo di smarrimento.

Luci, voci e suoni echeggiavano nel modulo lunare in sequenze e significati ormai incomprensibili per la mente di Ciro, ormai nel panico.
Riuscì comunque a mantenere una calma apparente e a non interferire con l’equipaggio … ma era dura continuare a farlo.  
Si fece coraggio e guardò verso uno degli oblò.
La Luna era ormai enorme.
Vedeva monti, crateri e valli con un dettaglio angosciante.
«Mamma mia!» pensò.
«Ma … allora … è finita …»
Il terreno lunare era ormai troppo vicino.
Le voci ormai tradivano paura e angoscia.
«Our Father, who art in heaven …» sussurrava il comandante.
«Si» pensò Ciro «E’ proprio finita…»
Pochi istanti ancora …
Tra il risuonare degli allarmi ormai assordanti strinse forte gli occhi, e …

«Ciro … Ciro …»
«Ci sei?»
«Dai! Che tra un attimo iniziamo.»
Ciro si rese conto che era stato tutto un vorticoso sogno ad occhi aperti mentre Roberto lo stava chiamando.
«Quando parli, stai un po’ più spostato a destra, così ti riprendo con una luce migliore …»
«Uh … ehm … si … si … certo Robby»
«Grazie come sempre!!!» Quindi si diresse, un po’ scosso, ma molto contento di iniziare la sua conferenza per celebrare il 60° anniversario sul primo sbarco sulla Luna.

Roberto Castagnetti

Ed ecco… le Cosmo storie?

Un sabato pomeriggio, mentre il Direttivo del COSMo stava ragionando sulle attività da pianificare, iniziò a serpeggiare una strana idea: perché non scrivere storie e racconti di scienza e fantascienza?
Perché no … dopotutto Luigi aveva già al suo attivo una certa esperienza in fatto di scrittura visto che aveva pubblicato alcuni romanzi.
Racconti brevi e storie, da pubblicare sul nostro sito.

La prima potrebbe iniziare così:

Anno 3022
L’Umanità si è espansa tra le stelle.
L’Unione dei Mondi Umani è una confederazione interplanetaria abitata dai discendenti dei primi coraggiosi viaggiatori interstellari.
Vive in pace con altre razze evolute a loro volta organizzate in strutture politiche più o meno grandi.
Al momento non ci sono nemici ma solo relazioni commerciali e di interscambio culturale.
La porzione di Galassia esplorata è piccola, ed il Corpo di Esplorazione Interstellare dei Mondi Umani si spinge oltre i confini dell’Universo noto alla scoperta di nuova conoscenza ed alla ricerca di nuovi mondi.

Questa è la narrazione delle gesta di un gruppo di coraggiosi esploratori che permisero all’Umanità di arrivare in luoghi misteriosi ed affascinanti mai raggiunti prima da esseri umani.

È la storia dell’astronave “Cosmo” e del suo intrepido equipaggio:
Louis Villages (Comandante),

David Villages (Addetto Scientifico),
Leon Abell (Sistemi Informatici),
Cyrano De Petit Sacs (Comunicazioni),
Rupert Kastanien (Astronavigazione),
Gabriel Kastanien (Sistemi Operativi),
Evgon Avms (Cuoco),
PAOLA (Intelligenza Artificiale – IA).

… continua?

Chi ci conosce, potrebbe pensare che ci sia qualche assonanza, ma vi assicuro che ogni riferimento a persone esistenti oppure a fatti realmente accaduti è puramente casuale.
… o quasi.

Elicotteri e sottomarini nello spazio!

L’uomo, si sa, è un esploratore di terra, di mare e dell’aria, e questa nostra passione e predisposizione l’abbiamo applicata abbondantemente qui sul nostro pianeta.

Ma mezzo secolo fa abbiamo cominciato ad espandere le nostre virtù anche sulla Luna con un’auto elettrica per consentire ai nostri astronauti della missione Apollo di ampliare il loro orizzonte di esplorazione sul nostro satellite.

Ora che ci abbiamo preso gusto ad esplorare il suolo pensiamo all’aria: abbiamo in viaggio verso Marte un elicottero, Ingenuity, appeso alla pancia di un Rover di una tonnellata: Perseverance.

Ma non ci fermiamo, perché adesso stiamo pensando ai mari.

Purtroppo, i mari disponibili fuori dalla Terra, a parte quelli della Luna che non hanno nulla a che fare con i fluidi, sono tutti ghiacciati in superfice. Con spessori di ghiaccio anche di qualche km.

Quindi inviare una nave, o forse meglio una piccola barca, è fuori discussione.

Ma c’è un posto, molto lontano, dove i mari liquidi ci sono, insieme ai fiumi alla pioggia e tutto il resto: è Titano, il satellite gigante di Saturno. Moti ondosi ed increspature fanno luccicare (Sun glitter) il Kraken Mare su Titano. Ne è stato testimone lo spettrometro Visual and Infrared Mapping Spectrometer (VIMS) a bordo della gloriosa sonda della NASA Cassini, che ha navigato nel sistema di Saturno dal 2004 al 2017. 

Fonte e credit aliveuniverse.today

I liquidi dei mari in questione non sono a base di acqua ma di idrocarburi! Ci sono comunque bacini di centinaia di km quadrati di mare profondo un centinaio di metri.

Quindi ci inviamo una barca?

No! Ci mandiamo direttamente un sottomarino, così andiamo a vedere direttamente cosa c’è sotto. Un piccolo sottomarino, ma ad energia nucleare. Già, perché i pannelli solari ad un centinaio di metri sotto, anche se è metano liquido, non funzionano e la sotto abbiamo bisogno di energia per mesi.

Gli RTG al Plutonio, già usati sulla Cassini, su Curiosity e sull’attuale Perseverance vanno benissimo. Ci sono anche altre caratteristiche favorevoli per un sub su Titano.

  1. La forza di gravità, quindi anche la pressione sullo scafo, vale il 14% di quella terrestre a parità di profondità.
  2. Il liquido in cui navigherebbe il piccolo sottomarino è molto piu fluido e trasparente dell’acqua.
  3. Non è uno schermo per le onde radio.

Dobbiamo aspettare ancora qualche decennio ma il progetto comincia a prendere forma… e finanziamenti.

Commentato da Luigi Borghi.

Ecco la traduzione della fonte da Space.comhttps://www.space.com/saturn-moon-titan-submarine-concept-mission.html

Un sottomarino automatico potrebbe esplorare i mari di Titano, la grande luna di Saturno.

Il sottomarino potrebbe essere pronto per il lancio nel 2030.

I ricercatori hanno proposto l’invio di un sottomarino per esplorare l’enorme luna di Saturno ei suoi mari gelidi di metano ed etano.

I ricercatori hanno ideato una missione concettuale che prevede l’invio di un sottomarino su Titano, l’enorme luna di Saturno, che sfoggia laghi e mari di idrocarburi liquidi sulla sua gelida superficie.

Tale missione, se approvata e finanziata dalla NASA, potrebbe essere pronta per il lancio nel 2030, potenzialmente spianando la strada per un’esplorazione sottomarina ancora più ambiziosa lungo la strada, hanno detto gli sviluppatori del concetto.

Correlata di Foto incredibili: Titano, la luna più grande di Saturno

Il mese scorso, durante una presentazione con il gruppo di lavoro Future In-Space Operations dell’agenzia, Steven Oleson, del Glenn Research Center della NASA in Ohio, ha detto “Riteniamo che il sottomarino Titan sia una specie di primo passo prima di andare poi a fare una missione secondaria Europa o Encelado”.

Europa ed Encelado, rispettivamente lune di Giove e Saturno, ospitano enormi oceani di acqua liquida. Ma questi due corpi idrici sono sepolti sotto gusci di chilometri di ghiaccio e sarebbero quindi più difficili rispetto a far scendere un sottomarino nei mari superficiali di Titano.

Fotografia di Cassini della zona interessata (credit NASA)

Un mondo strano e potenzialmente abitabile

Con una larghezza di 5.150 chilometri, Titano è la seconda luna più grande del sistema solare. L’unico più grande è Ganimede di Giove, che batte Titano di soli 120 km.

Ma la dimensione non è tutto ciò che rende Titano speciale. Ad esempio, la luna gigante è l’unico mondo oltre la Terra conosciuto per ospitare corpi stabili di liquido sulla sua superficie – quei mari e laghi di metano liquido ed etano, alcuni dei quali sono più grandi dei Grandi Laghi del Nord America.

Inoltre, la spessa atmosfera di Titano ospita probabilmente una chimica complessa che coinvolge molecole organiche, gli elementi costitutivi della vita come la conosciamo che contengono carbonio. Di conseguenza, molti astrobiologi visualizzano Titano come una promettente dimora potenziale per la vita, suggerendo che gli organismi nativi potrebbero volare nell’aria della luna o nuotare nei suoi laghi e mari.

Quei nuotatori sarebbero molto diversi da tutto ciò che esiste qui sulla Terra, dato che si darebbero da vivere in metano liquido o etano piuttosto che in acqua. La superficie di Titano è troppo fredda perché l’acqua rimanga liquida, ma gli scienziati pensano che la luna ospiti un mare salato nel sottosuolo, come Encelado, Europa e un certo numero di altri corpi del sistema solare.

È quindi possibile che Titano ospiti due ecosistemi completamente diversi e separati- un mondo di superficie di “strana vita” che convive con un regno di organismi più familiari (per noi, comunque) dipendenti dall’acqua.

Esplorare i mari degli idrocarburi?

La maggior parte di ciò che sappiamo su Titano l’abbiamo imparato dalla missione Cassini-Huygens da 3,2 miliardi di dollari, che ha studiato Saturno e le sue numerose lune da vicino dal 2004 al 2017. La maggior parte di questo lavoro è stato fatto dall’orbiter Cassini Saturn della NASA, ma contributi significativi sono arrivati anche dal lander Huygens, una sonda dell’Agenzia Spaziale Europea-Agenzia Spaziale Italiana che ha toccato Titano nel gennaio 2005.

La NASA sta lavorando su un veicolo spaziale Titan proprio – un drone a otto rotori chiamato Dragonfly, che dovrebbe essere lanciato nel 2026. Se tutto va secondo i piani, Dragonfly atterrerà su Titano nel 2034, quindi studiare la chimica complessa della luna e la potenziale abitabilità in un certo numero di luoghi diversi.

Un sottomarino potrebbe essere il prossimo passo nell’esplorazione di Titan. L’agenzia non ha selezionato l’idea sub Titan come missione ufficiale, ma Oleson e il suo team hanno ottenuto due round di finanziamenti dal programma NASA Innovative Advanced Concepts (NIAC), che cerca di stimolare lo sviluppo di idee e tecnologie di esplorazione potenzialmente mutevoli. Queste due sovvenzioni NIAC, del valore di 100.000 e 500.000 dollari, sono state assegnate rispettivamente nel 2014 e nel 2015.

L’obiettivo principale del lavoro NIAC era quello di elaborare un progetto di ingegneria di base di un potenziale sottomarino Titan, Oleson ha detto.

“È possibile?”, Ha detto durante la presentazione FISO. “Quali tipi di tecnologie sono necessarie? Cosa c’è di unico in quell’ambiente?”

Le unicità sono a diversi livelli. Per esempio, anche se Titano è enorme per una luna, è molto più piccolo della Terra, con solo il 14% dell’attrazione gravitazionale del nostro pianeta. Ciò significa che un sottomarino su Titano non sperimenterebbe una pressione simile a quella di un sottomarino alla stessa profondità sulla Terra.

E il sottomarino Titano sarebbe in crociera attraverso un mezzo diverso da quelli qui sulla Terra. Ma questo non è necessariamente un aspetto negativo. Un sottomarino potrebbe spingere attraverso idrocarburi liquidi abbastanza facilmente, ha detto Oleson, e il liquido è trasparente ai segnali radio, consentendo la comunicazione con l’imbarcazione anche quando è sommersa.

Tali comunicazioni potrebbero raggiungere il sottomarino direttamente dalla Terra o essere trasmesse tramite un orbiter Titan, a seconda dell’architettura della missione.

Un sottomarino titano autonomo avrebbe bisogno di essere grande – circa 6 metri di lunghezza, con un peso (sulla Terra) di 1.500 kg – per ospitare le attrezzature di comunicazione necessarie. Un sottomarino con un compagno orbiter, al contrario, potrebbe inserire la stessa strumentazione scientifica in un corpo lungo appena 2 metri, con un peso di circa 500 kg.

Tale equipaggiamento scientifico dovrebbe includere, al minimo, un pacchetto di chimica che analizza i campioni di liquido, un imager di superficie, un sonar di profondità, una stazione meteorologica e uno strumento che misura le proprietà fisiche del mare circostante. Ulteriori strumenti potrebbero analizzare campioni di fondali marini e immagini del fondo dell’oceano.

I ricercatori hanno anche studiato la possibilità di rimanere in superficie con una barca, che avrebbe sondato le profondità del Titanic a intermittenza con piccoli dispositivi carichi di strumenti chiamati dropsondes. Questa sarebbe un’opzione meno rischiosa, ma Oleson ha detto che la ricompensa sarebbe anche inferiore.

“Stiamo perdendo la scienza, solo per il fatto che non possiamo immergere e fare un sacco di questi test,” ha detto dell’idea della barca.

Un sottomarino autonomo o un duo sub-orbiter sarebbero probabilmente missioni di punta, ha detto Oleson. Le ammiraglie sono le missioni più costose e ambiziose della NASA, con cartellini dei prezzi generalmente superiori a 2 miliardi di dollari in questi giorni. Ne sono un esempio Cassini-Huygens, il rover Curiosity di Marte e il rover Mars 2020 Perseverance, lanciato verso il Pianeta Rosso alla fine di luglio.

La NASA potrebbe essere in grado di portare a casa una missione in barca Titan tramite il suo programma New Frontiers. Le missioni New Frontiers, come Dragonfly e la sonda New Horizons Pluto, costano molto meno delle ammiraglie.

Le proposte per l’ultimo round di finanziamenti di New Frontiers, che ha portato alla selezione di Dragonfly nel giugno 2019, hanno dovuto rispettare un tetto di costo di 850 milioni di dollari (inclusi i costi di lancio o di missione).

Tutte le versioni di un esploratore marino Titano sarebbero a propulsione nucleare, proprio come Cassini e Dragonfly. Saturno si trova 10 volte più lontano dal sole della Terra, quindi la luce solare si diffonde piuttosto sottile su Titano. (E un sottomarino a energia solare sarebbe probabilmente una cattiva idea anche qui sulla Terra, dato che tali veicoli vivono nelle scure profondità)

Lancio nel 2030?

Le alte latitudini settentrionali di Titano ospitano quasi tutti i laghi e i mari della luna, compresi i due più intriganti obiettivi di esplorazione sottomarina, Kraken Mare e Ligeia Mare.

Entrambi questi mari sono enormi. Kraken Mare si estende per circa 400.000 km2 ed è profondo almeno 35 metri. Ligeia Mare ha un’area di 130.000 km2 e una profondità massima di 170 metri.

Come Saturno, Titano ha stagioni che durano circa sette anni terrestri a testa. Sarebbe meglio esplorare Kraken o Ligeia durante l’estate settentrionale di Titano, quando un veicolo spaziale potrebbe immagine delle coste in luce visibile e comunicare direttamente con i controllori di missione sulla Terra, ha detto Oleson.

Un arrivo 2045 a Titano sarebbe quindi una buona scelta, ha detto. Se la missione includeva un orbiter per le comunicazioni, arrivando durante la primavera settentrionale, intorno al 2040, è anche un’opzione, ha aggiunto Oleson.

Il viaggio verso Saturno dura circa sette anni, quindi una sub missione Titan di qualsiasi tipo avrebbe bisogno di lanciare nel 2030 (a meno che non vogliamo aspettare altri tre decenni per le stagioni di cambiare di nuovo).

Questa linea temporale “andrebbe bene con noi, essere in grado di prepararlo nel prossimo decennio a spingerci lì”, ha detto Oleson.

Finalmente Insight è riuscito ad introdurre la sua sonda nel suolo marziano.

Chi di voi ha seguito l’avventura di questo lander della NASA sa bene quanto il mondo scientifica aspettasse questa notizia! Buona parte degli obiettivi di questo lander erano e sono legati a questo probe che non ne voleva sapere di perforare il suolo.
È incredibile la flessibilità operativa di questi robot. Con il simulatore a terra si riescono ad effettuare innumerevoli tentativi prima di trovare la strategia giusta, ma non bisogno scordarsi che sono due oggetti diversi in due ambienti completamente diversi! Alla NASA ci sono dei tecnici che guardano, ragionano ed eseguono, su Marte non c’è nessuno!
L’articolo che vi propongo, preso da Alive Universe, l’ho trovato interessante perché fa capire come a volte anche con tecnologie all’avanguardia come l’hardware di Insight, le dinamiche e gli strumenti per piantare un palo o una sonda in terra o nel suolo marziano sono le stesse: il martello!
Eccovi l’articolo.

Commento di Luigi Borghi.

Insight: la talpa è finalmente sottoterra!

Le operazioni di ‘back-cap push’ hanno avuto successo e da una settimana la sonda termica, spinta dalla pala meccanica, è praticamente sotto il livello del terreno (aggiornamento del 8 giugno).
Dopo circa 14 mesi di peripezie, quella che sembrava una impresa quasi disperata si sta realizzando e la sonda termica dello strumento HP3 (“Heat Flow and Physical Properties Package”), destinata a misurare temperatura e flusso di calore nel suolo di Elysium planitia, è ora quasi interamente al di sotto del livello del terreno.


Sol 536, IDC (top) e ICC (bottom)
Credit: NASA/JPL-Caltech – Processing: Marco Di Lorenzo

Nell’immagine, l’accostamento mostra gli ultimi progressi registrati nel pomeriggio del Sol 536 (30 Maggio), su un arco temporale di mezz’ora: sia le riprese dalla fotocamera sul braccio robotico IDC (in alto), sia con la ICC grandangolare fissa sotto il deck del lander (in basso). Come si vede sulla destra, adesso la pala meccanica è “a filo” con il terreno circostante e la talpa, invisibile, è presumibilmente del tutto seppellita.

Come ha raccontato 4 giorni fa Tilman Spohn (Principal Investigator per HP3) nel suo blog, dopo la nuova “emersione” di Febbraio, in cui la talpa era risalita di ben 5 cm per effetto del riempimento di materiale della cavità in cui era precedentemente penetrata, si è abbandonata la tecnica del ‘pinning’ (pressione laterale) a favore di una strategia di ‘back-cap push’ ovvero di pressione sulla sommità della sonda.
Per prima cosa, la pala viene calata sulla talpa fino a toccarla e poi viene ulteriormente abbassata e messa in tensione, in modo da provocare una forza iniziale di 50 Newton (il peso di circa 5 kg sulla Terra) su di essa. Durante la fase successiva di martellamento, la talpa affonda di 15 mm mentre la forza esercitata dalla pala, che segue comunque l’abbassamento, si riduce progressivamente a zero per poi ricominciare dall’inizio.

Questa complessa strategia, ovviamente, non è improvvisata ma è il frutto di lunghe simulazioni svolte prima a Terra, con una copia dell’hardware interessato. A causa della portata limitata del braccio meccanico e dell’orientamento obliquo della talpa, il contatto tra i due si riduce ad un punto; sarebbe bastato un errore di posizionamento di pochissimi millimetri per causare lo scivolamento laterale della pala oppure, peggio ancora, il danneggiamento del cavo piatto che alimenta e trasporta informazioni dalla sonda; peraltro, il cavo è esso stesso uno strumento perché contiene svariati sensori di temperatura per tutta la sua lunghezza. Come se non bastasse, con l’abbassarsi della talpa, a causa dell’inclinazione di quest’ultima la pala tende ad avvicinarsi ulteriormente al cavo, per cui è necessario calcolare un margine di manovra.

Dati i margini così ristretti, il team ha prudentemente limitato le sessioni iniziali di martellamento a soli 25 colpi per volta; tale cifra è salita poi a 150 colpi nelle ultime sessioni, quando il team aveva ormai acquisito una certa confidenza sul processo e sulla capacità di riposizionare con precisione la pala sulla sonda. Quello che si può affermare fin da ora, è che la talpa non è stata ostacolata nel suo affondare da uno strato roccioso sepolto, come si era temuto inizialmente.

A detta di Sophn, la pala potrebbe ancora essere leggermente al di sopra del livello del terreno (anche se le immagini suggeriscono il contrario) e la sommità della talpa potrebbe sporgere ancora di 1 cm su lato più in alto; in effetti, nel Sol 543 (6 giugno) la pala è stata leggermente sollevata e poi riposizionata sulla talpa; in seguito, è stata effettuata una ultima sessione di “hammering” che ha portato il fondo della pala a diretto contatto con il terreno; adesso la talpa dovrebbe avere raggiunto lo strato più duro e profondo di regolite [in rosso la parte aggiornata la mattina del 8 giugno]
A quel punto, la pala verrà sollevata e verrà condotto un “free-Mole test” per studiarne il comportamento senza alcun aiuto. I calcoli fatti già nei mesi scorsi suggeriscono infatti che, una volta che la talpa è completamente sotto il livello del terreno, dovrebbe affondare spontaneamente senza aiuti ma per effetto della peso del terreno e della accresciuta pressione e frizione sulle sue pareti.

Se questo non dovesse verificarsi, ci sarebbero due possibili opzioni da seguire per le successive sessioni di martellamento:

  1. ricoprire con uno strato di terreno la sommità della talpa e pressare su di esso con la pala;
  2. continuare a fare pressione direttamente con la pala ma “di taglio”, usando il suo margine anteriore invece della parte piatta.

Nel primo caso, la pressione del braccio meccanico sarà necessaria solo nelle fasi iniziali poiché le simulazioni mostrano che, superati i 20 cm di profondità, il vantaggio che ne deriva diventerebbe trascurabile.

La seconda opzione appare ancora più azzardata di quanto fatto finora in termine di margini e rischi ma il team “Instrument Deployment Arm (IDA)” che gestisce il braccio meccanico si è dichiarato abbastanza confidente in questo senso.

Per concludere, una curiosità dalla stazione meteorologica di Insight: negli ultimi giorni si sono registrati nuovi record superiori di temperatura su Elysium Planitia, -50.4 °C come media giornaliera e +1,55 °C di temperatura massima, nei Sol 541 e 540 rispettivamente; si tratta sempre della conseguenza dell’approssimarsi del perielio marziano, nonostante la stagione autunnale inoltrata. Tuttavia, si sta avvicinando anche la stagione delle tempeste di sabbia e questo potrebbe diventare un serio problema per i prossimi tentativi con la talpa perché l’aumentata opacità atmosferica ridurrebbe la potenza generata dai pannelli solari, inibendo le operazioni con il braccio meccanico che richiedono parecchia energia.

Non ci resta che incrociare le dita e seguire con trepidazione le prossime manovre!

Di: Marco Di Lorenzo 08/06/2020

Link all’articolo

Fotografato un sistema multiplanetario attorno ad una stella di tipo solare a 300 anni luce dalla Terra

TYC 8998-760

Ci stiamo muovendo velocemente verso la visione diretta dei pianeti extrasolari? Si. È vero! I moderni telescopi ottici di grandi dimensioni aiutano ed aiuteranno sempre di più in questa caccia. Anche i telescopi spaziali, con l’aiuto di sofisticati coronografi, sono e saranno in grado di regalarci informazioni ed immagini sempre più dettagliate.

Senza voler fare l’avvocato del diavolo però devo dire che non è da oggi che abbiamo questa capacità. Nell’immagine sottostante abbiamo la fotografia di un sistema planetario della stella HR 8799, distante 129 anni luce da noi, che dal 2009 a 2015 è stata oggetto di attente osservazioni che hanno poi portato alla individuazione di enormi pianeti orbitanti.

HR 8799 ospita quattro pianeti tipo “super-Giove” in orbita con periodi che vanno da decenni a secoli. L’interpolato di questa immagine è stato realizzato interpolando 7 immagini di HR 8799  nella costellazione di Pegaso, situata ad una distanza di 129 anni luce, prese dal telescopio Keck in 7 anni (2009-:-2015).

Maggiori informazioni su http://www.manyworlds.space/index.php/2017/01/24/a-four-planet-system-in-orbit-directly-imaged-and-remarkable/ Crediti: Creazione video e interpolazione di movimento: Jason Wang Analisi dei dati: Christian Marois Determinazione dell’orbita: Quinn Konopacky Acquisizione dei dati: Bruce Macintosh, Travis Barman, Ben Zuckerman

Anche i pianeti dell’articolo che vi propongo oggi che orbitano attorno alla TYC 8998-760-sono enormi.

TYC 8998-760-1b è circa 14 volte più massiccio di Giove e orbite a una distanza media di 160 unità astronomiche (AU), impiegando secoli. Possiamo dire una stella mancata perché la enorme forza di gravità di questa enorme massa produrrà sicuramente enormi temperature all’interno del pianeta, senza riuscire comunque ad innescare la fusione.

Insomma, per “vederli bene” dobbiamo aspettare la nuova generazione di telescopi a Terra (in vetta al Cerro Armazones, in Cile a 3000 metri, sta sorgendo l’European Extremely Large Telescope. Con uno specchio primario di 39 metri. Vedrà la prima luce nel 2025) e nello spazio (JWST della NASA. Verrà collocato in L2 Terra-Sole a circa 1,5 milioni di km dalla Terra, e sarà in grado di vedere nell’infrarosso. Operativo entro il 2022).

Ricordati sempre che vederli sarà presto possibile, andarci invece… scordiamocelo!

Commentato da Luigi Borghi.

Eccovi la traduzione dell’articolo.

Fotografato per la prima volta in assoluto un sistema multiplanetario attorno ad una stella di tipo solare a 300 anni luce dalla Terra.

I due pianeti appena ripresi sono enormi: 14 e 6 volte più massicci di Giove.

Il Very Large Telescope (VLT) dell’Osservatorio europeo meridionale in Cile, secondo un nuovo studio, ha fotografato due pianeti giganti che circondano TYC 8998-760-1, una stella molto giovane, analoga al nostro sole, che si trova a circa 300 anni luce dalla Terra,

“Questa scoperta è un’istantanea di un ambiente che è molto simile al nostro sistema solare , ma in una fase molto precedente della sua evoluzione”, ha detto in una nota l’ autore principale dello studio Alexander Bohn, uno studente di dottorato all’Università di Leida nei Paesi Bassi. 

I due pianeti giganti nel sistema TYC 8998-760-1 sono visibili come due punti luminosi al centro (TYC 8998-760-1b) e in basso a destra (TYC 8998-760-1c) dell’immagine, indicati dalle frecce. 

Sono visibili nell’immagine altri punti luminosi, che sono stelle di sfondo. 

Prendendo immagini diverse in momenti diversi, il team è stato in grado di distinguere i pianeti dalle stelle di sfondo. L’immagine è stata catturata bloccando la luce dalla giovane stella simile al sole (in alto a sinistra al centro) usando un coronagraph, che consente di rilevare i pianeti più deboli. Il luminoso e il buio visti sull’immagine della stella sono artefatti ottici.  (Credito immagine: ESO / Bohn et al.)

Prima di questo storico ritratto cosmico, solo due sistemi multiplanetari erano mai stati fotografati direttamente e nessuno dei due presentava una stella simile al sole, hanno detto i membri del team di studio. E scattare una foto anche di un solo esopianeta rimane un risultato raro.

“Anche se gli astronomi hanno rilevato indirettamente migliaia di pianeti nella nostra galassia, solo una piccola parte di questi esopianeti è stata fotografata direttamente”, ha affermato il co-autore Matthew Kenworthy, professore associato all’Università di Leida, nella stessa dichiarazione.

Bohn, Kenworthy e i loro colleghi hanno studiato la stella 17enne TYC 8998-760-1 di 17 milioni di anni con lo strumento di ricerca esopianeta ad alto contrasto Spectro-Polarimetrico del VLT, o SPHERE in breve. SPHERE utilizza un dispositivo chiamato coronagraph per bloccare la luce accecante di una stella, consentendo agli astronomi di vedere e studiare in orbita i pianeti che altrimenti andrebbero persi nel bagliore.

Le immagini SPHERE appena riportate hanno rivelato due pianeti nel sistema, TYC 8998-760-1b e TYC 8998-760-1c. Gli astronomi conoscevano già TYC 8998-760-1b – un team guidato da Bohn ha annunciato la sua scoperta alla fine dello scorso anno – ma TYC 8998-760-1c è un mondo ritrovato.

I due pianeti sono enormi e distanti. TYC 8998-760-1b è circa 14 volte più massiccio di Giove e orbite a una distanza media di 160 unità astronomiche (AU), e TYC 8998-760-1c è sei volte più pesante di Giove e si trova a circa 320 UA dalla stella ospite . (Una UA è la distanza media Terra-sole – circa 150 milioni di chilometri. Per fare un confronto: Giove e Saturno orbitano attorno al nostro sole a soli 5 UA e 10 UA, rispettivamente.)

Non è chiaro se i due mondi in TYC 8998-760-1 si siano formati nelle loro posizioni attuali o siano stati spinti fuori in qualche modo. I membri del team di studio hanno detto che ulteriori osservazioni, comprese quelle fatte da enormi osservatori futuri come l’Extremely Large Telescope (ELT) europeo, potrebbero aiutare a risolvere questo mistero.

Altre domande rimangono sul sistema TYC 8998-760-1. Ad esempio, i due giganti gassosi hanno compagnia? Diversi pianeti rocciosi potrebbero circolare relativamente vicino alla stella, come fanno nel nostro sistema solare? 

“La possibilità che strumenti futuri, come quelli disponibili sull’ELT, saranno in grado di rilevare anche pianeti di massa inferiore attorno a questa stella segna un’importante pietra miliare nella comprensione dei sistemi multiplanetario, con potenziali implicazioni per la storia del nostro sistema solare”, Disse Bohn.

Il nuovo studio è stato pubblicato online il 22 luglio 2020, in The Astrophysical Journal Letters.

Mike Wall è l’autore di “Out There” (Grand Central Publishing, 2018; illustrato da Karl Tate), un libro sulla ricerca della vita aliena. Seguilo su Twitter @michaeldwall. Seguici su Twitter @Spacedotcom o Facebook. 

Commentato da Luigi Borghi.

Ecco il link:

https://www.space.com/multiplanet-system-sun-like-star-first-photo.html

Gli astronauti di Artemis saranno pedoni!

Si, proprio così! Appiedati! Almeno nelle prime missioni.
Ci si sarebbe aspettato che con una capsula come la Orion riprogettata con tecnologia attuale, anche il rover lunare subisse la stessa ingegnerizzazione. Invece no! Gireranno a piedi con tute molto più comode e con maggior autonomia che gli permetteranno di passeggiare per 16 km anziché il solo km delle tute di Buzz e Neil di Apollo 11. Anche l’ambiente polare della prima missione di Artemis sarà molto più “duro” rispetto all’equatore del progetto Apollo. La scelta del polo sud è legata alla ricerca di acqua ghiacciata dentro ai crateri mai esposti alla luce del Sole. Un elemento indispensabile per andare avanti con la programmata base lunare. Senza acqua, niente cibo, niente carburante per i razzi di ritorno: fine dei giochi. Ma l’acqua c’è, questo già si sa. L’articolo che vi propongo comunque mette il dito su una piaga, perché anch’io mi sarei aspettato una bella automobile elettrica, nuova di zecca, targata ‘Luna 5’ magari prodotta da Tesla!
Eccovi l’articolo tratto da Space.com.

Commento di Luigi Borghi.

Non aspettarti che i primi astronauti della NASA viaggino sulla luna in un’elegante macchina lunare

di Meghan Bartels

Rappresentazione di un artista di astronauti che camminano sulla luna come parte del programma Artemis della NASA.
(Immagine: © NASA)

L’anno scorso, la NASA si è prefissata un obiettivo ambizioso : inviare gli astronauti a camminare sulla luna nel 2024. Ora, l’agenzia è impegnata a pianificare cosa faranno gli astronauti durante quelle escursioni.

La NASA non ha fatto sbarcare umani in un altro mondo da quasi 50 anni, non dalla missione Apollo 17 sulla luna del 1972. Ma questo è l’obiettivo dell’agenzia per il suo programma Artemis . Quindi, l’agenzia sta combinando quell’esperienza Apollo con ciò che ha appreso durante decenni di vita e di lavoro sulla Stazione Spaziale Internazionale, e cospargendo alcune sfide che vuole affrontare in preparazione della prossima pietra miliare dell’esplorazione, una missione umana su Marte.

La scienza non è il fattore limitante, ovviamente: gli scienziati hanno avuto il desiderio di tornare sulla superficie della luna per secoli. Ma le discussioni intorno al programma Artemis hanno teso a focalizzarsi sulle sfide che devono essere affrontate prima del primo atterraggio con equipaggio nel 2024 o sulla visione a lungo termine dell’agenzia per la luna, piuttosto che sui dettagli pratici di sfruttare le prime opportunità di moonwalk .

In una serie di presentazioni fatte il mese scorso, il personale della NASA ha descritto alcuni dettagli della visione dell’agenzia per una nuova era di passeggiate sulla luna. In particolare, i rappresentanti hanno offerto un’idea di come le attività extraveicolari, o EVA, durante la prima missione terrestre , Artemis 3 nel 2024, potessero svolgersi.

In primo luogo, le basi: durante la missione, due astronauti trascorreranno fino a circa 6,5 ​​giorni sulla superficie lunare, ha detto Lindsay Aitchison, un ingegnere di tuta spaziale alla NASA, durante il Lunar Surface Science Virtual Workshop tenutosi il 28 maggio.

È quasi il doppio della durata del più lungo soggiorno di astronauti durante le missioni Apollo . Durante quel soggiorno, gli astronauti effettueranno circa quattro attività extraveicolari, ciascuna delle quali potrebbe durare circa sei ore, ha detto Aitchison, in linea con la durata delle escursioni tipiche al di fuori della Stazione Spaziale Internazionale. Durante la prima missione di atterraggio con equipaggio, gli astronauti dovranno usare i propri piedi per aggirare la superficie lunare. 

La NASA non si aspetta di avere un grande rover in superficie e pronto ad aiutare l’esplorazione fino al secondo atterraggio al più presto. “Saremo limitati al solo equipaggio e fino a che punto potranno camminare con i propri piedi”, ha detto Aitchison. “Questa è ancora una distanza abbastanza ampia, ma è un po ‘limitata fino a quando non si arriva alle ulteriori fasi di esplorazione.”

Dato questo vincolo, ha detto Aitchison, la NASA ha calcolato che durante ogni EVA, l’equipaggio dovrebbe essere in grado di coprire circa 10 miglia (16 km) di andata e ritorno. (Per fare un confronto, durante la loro unica escursione lunare su Apollo 11 , Neil Armstrong e Buzz Aldrin percorsero circa 3.300 piedi, o 1 km, in 2,5 ore.)

Le esplorazioni degli astronauti saranno anche limitate in termini di dove le loro tute possono tenerli al sicuro. Le missioni Apollo sono approdate tutte nella regione equatoriale della luna, ma le missioni Artemis andranno in un posto completamente nuovo, la regione del polo sud , dove temperature estremamente fredde possono creare problemi alle tute spaziali.

Questa è una decisione calcolata da parte della NASA. Il polo sud è allettante perché gli scienziati hanno confermato che il ghiaccio d’acqua si nasconde sotto la superficie della luna in crateri meridionali profondi che non vedono mai la luce solare diretta. Gli aspiranti esploratori sperano che tale ghiaccio possa essere estratto e trasformato in acqua potabile o combustibile per missili, facilitando missioni più ambiziose.

Ma le stesse condizioni che favorirebbero tale ghiaccio renderebbero difficile l’esplorazione diretta da parte degli astronauti. Le tute spaziali della prima missione atterrata non saranno in grado di resistere a temperature così fredde, ha confermato Jake Bleacher, geologo e capo esploratore della NASA, durante lo stesso incontro. Anche nelle missioni successive, gli astronauti potrebbero aver ancora bisogno di rimanere in aree più calde e illuminate dal sole e lasciare il lavoro diretto nelle regioni permanentemente ombreggiate agli assistenti robotici.

La prima tuta spaziale Artemis sarà un modello chiamato Exploration Extravehicular Mobility Unit , o xEMU, che si basa sulle tute EMU attualmente utilizzate dagli astronauti durante le passeggiate spaziali sulla Stazione Spaziale Internazionale, incorporando alcune lezioni specifiche sulla luna del programma Apollo.

“Qui testeremo le tecnologie, utilizzeremo le lezioni apprese dall’UEM e ovviamente da Apollo, per arrivare al 2024”, ha dichiarato Natalie Mary, ingegnere di sistemi EVA presso il Johnson Space Center della NASA a Houston, durante un comitato su Incontro di ricerca spaziale tenutosi virtualmente il 20 maggio incentrato sulle missioni umane su Marte. “Abbiamo alcune cose che stiamo trattenendo [on] per [esplorazione] lunare sostenuta.”

In particolare, durante tutto il processo di progettazione di xEMU, gli ingegneri delle tute spaziali si sono concentrati sull’adattamento e sulla mobilità al fine di facilitare l’esplorazione. A differenza delle tute Apollo e della stazione spaziale, le tute xEMU enfatizzano il movimento della parte inferiore del corpo, pensato per garantire che gli astronauti possano camminare sulla superficie con relativa facilità.

Tuttavia, la xEMU sarà una tecnologia in evoluzione e la NASA ha già in programma di apportare alcune modifiche per supportare soggiorni lunari più lunghi per le successive missioni Artemis, tra cui rafforzare la protezione della tuta contro la polvere di luna viziosa. Le suite successive potrebbero anche essere programmate per verificare le loro condizioni, piuttosto che richiedere tempo prezioso all’astronauta per un’ispezione dettagliata per garantire la sicurezza.

Uno dei componenti dell’xEMU che la NASA sta analizzando più attentamente sono i guanti , Tamra George, uno specialista di strumenti presso il Johnson Space Center, ha dichiarato durante il Lunar Surface Science Virtual Workshop.

“Una delle più grandi cose che limita i nostri progetti di strumenti e strumenti EVA è la mano guantata”, ha detto George.

I guanti da completo devono percorrere un equilibrio difficile, ha detto George, poiché devono essere flessibili per facilitare le attività degli astronauti ma anche abbastanza duri da mantenere gli astronauti isolati dal duro ambiente lunare. E tra la maggior parte dei guanti stessi e la pressione della tuta, il lavoro manuale nello spazio può essere sia difficile che drenante.

E, naturalmente, la mancanza di trasporto sulla superficie lunare influenza il tipo di strumenti che gli astronauti possono portare sulle passerelle lunari proprio come limita il terreno che possono coprire. Poiché gli astronauti della missione Artemis 3 dovranno portare da soli i loro kit di strumenti, equipaggiamento pesante o voluminoso non sarà un’opzione fino alle missioni successive.

Quei vincoli, oltre all’esperienza sulla luna di miele durante l’era dell’Apollo, hanno portato la NASA a stabilirsi su un set iniziale di otto strumenti scientifici di base per gli astronauti per portare queste escursioni, ha detto Adam Naids, un ingegnere di sviluppo hardware presso il Johnson Space Center, durante lo stesso incontro . Tali strumenti includono punti di geologia come un martello, un rastrello, una paletta e una pinza.

Naturalmente, la missione Artemis 3 è ancora a più di quattro anni di distanza, quindi la NASA è ancora all’inizio del processo di pianificazione di ogni aspetto delle sue passeggiate spaziali.

“L’idea qui era solo per iniziare a sviluppare alcuni degli strumenti che avevano un’alta probabilità di volare in base a ciò che è stato fatto in Apollo”, ha detto Naids. “Questo non è pensato per essere un elenco all-inclusive. Ci saranno dozzine e dozzine di altri strumenti e attrezzature che verranno realizzati, ma ci ha dato il via”.

Link all’articolo 

Gli Emirati alla conquista del pianeta rosso

Speranza!

E’ con questo nome, “Hope”, che gli Emirati Arabi iniziano la loro avventura nell’esplorazione del Cosmo.
La sonda Hope, rappresenta il biglietto d’imbarco staccato dai ricchissimi Emirati per intraprendere un lungo viaggio che li porterà ad esplorare il misterioso pianeta rosso; Marte.

La loro nuova avventura dopo il loro primo Astronauta Haza Al Maansouri sulla I.S.S. è la sonda Hope che il 15 luglio dovrebbe decollare dal centro Spaziale Tanegashima in Giappone, è destinata a raggiungere Marte e ad indagare sui cambiamenti climatici del pianeta indizio fondamentale per capire come Marte è mutato nei millenni.

Quando un altro paese si affaccia sul difficile mondo dell’esplorazione spaziale suscita un certo piacere perche credo che il futuro dell’Umanità risieda nella capacità di esplorare e successivamente raggiungere e colonizzare altri pianeti, non sarà un sentiero facile o breve, ma sono sicuro che ci riusciremo…..

Buona lettura

Commento di Ciro Sacchetti


Gli Emirati alla conquista del pianeta rosso

Di euronews  •  ultimo aggiornamento: 10/03/2020

Sono stati anni davvero impegnativi per il programma spaziale degli Emirati Arabi Uniti. Hanno sviluppato e lanciato una serie di satelliti e l’anno scorso hanno inviato il primo astronauta degli Emirati, Hazza Al Maansouri, alla Stazione Spaziale Internazionale.

Ora gli Emirati hanno lo sguardo fisso su Marte. E il culmine di tutti i loro sforzi è la sonda Hope, destinata a orbitare attorno al pianeta rosso.

“Ciò che la missione Emirates Mars fornirà – spiega Sarah Al Amiri, ministro per le scienze avanzate degli Emirati – sono i dati effettivi per un intero anno da ovunque su Marte. Perché è importante? Il cambiamento climatico è uno dei motivi: comprendere meglio le dinamiche meteorologiche e i cambiamenti atmosferici su Marte ci darà un elemento per sapere ciò è successo sul pianeta rosso. Perché è entrato nello stato in cui è oggi; ciò ci consentirà di comprendere meglio i cambiamenti climatici sulla terra e ciò che di solito accade naturalmente quando si tratta di cambiamenti climatici. Inviare uomini su Marte ci fornirà una migliore comprensione di ciò che si dovrà affrontare. È qualcosa di diverso da qualsiasi impresa abbiamo mai sognato o pensato di poter sognare o tentare”.

“Emirates Mars Mission è qualcosa di diverso da qualsiasi impresa abbiamo mai sognato o pensato di poter sognare o tentare”

Sarah Al Amiri 
Ministra per le scienze avanzate degli Emirati Arabi Uniti

Raggiungere Marte significherà grandi cambiamenti per gli Emirati Arabi Uniti.

Omran Sharaf, responsabile del progetto Emirates Mars spiega che gli Emirati cercano un cambiamento nell’ecosistema quando si tratta di costruire un’economia basata sulla conoscenza creativa, competitiva e innovativa. E si guarda allo spazio come a un mezzo per farlo. “Si tratta di affrontare le nostre sfide nazionali legate alle risorse idriche, alimentari ed energetiche. E si tratta di generare conoscenza che servirà a tutta l’umanità”, aggiunge Sharaf.

Spettrometri e supersensori per studiare Marte e orientare la sonda

Gli strumenti scientifici che raccoglieranno tutti questi nuovi dati da Marte includono:

  • Uno spettrometro a infrarossi per studiare i sistemi di nuvole dell’atmosfera inferiore, i cicli di diossido di carbonio e le temperature.
  • Un sensore per immagini ad alta risoluzione e per comprendere meglio i raggi ultra violetti nell’atmosfera inferiore.
  • Uno spettrometro a ultravioletti che esamina la velocità con cui l’idrogeno e l’ossigeno lasciano l’atmosfera superiore di Marte.

Nel maggio di quest’anno la sonda arriverà al centro spaziale di Tanegashima in Giappone, e l’arrivo nell’orbita marziana è previsto nel 2021. La data di partenza è stata scelta perché in quel momento la Terra e Marte si troveranno alla minima distanza tra loro. Questa situazione si ripete all’incirca ogni due anni, pertanto se la finestra di lancio del 2020 dovesse essere persa, il lancio sarà posticipato al 2022.

La sonda Hope

La sonda Hope consta di tre antenne a basso guadagno e un’antenna a elevato guadagno. Questa è usata principalmente quando si è lontani dalla terra. L’antenna ad alto guadagno ha un diametro di 1,85 metri. Generalmente si inviano dati sulla terra a circa 200 kbps (circa quattro volte più velocemente di un modem dial-up della vecchia scuola).

Ci sono quattro pannelli solari che forniscono la principale fonte di energia per il veicolo spaziale una batteria secondaria nel caso in cui non ci sia il sole. In fondo, sensori stellari per dire al veicolo spaziale dove si trova.

E siccome ci vogliono tra 12 minuti a quasi mezz’ora per parlare con l’astronave alla base si saprà solo dopo 20 lunghissimi minuti, se la sonda è atterrata bene.

Mohsen Alawadhi, ingegnere, spiega che a un certo punto “L’astronave distoglierà lo sguardo da Marte e punterà i propulsori verso Marte, poi rallenterà. Se andremo troppo veloci o troppo lenti, falliremo. Se non atterreremo dove vogliamo, probabilmente ci schianteremo su Marte. Quindi è una missione davvero critica”. “L’atterraggio” su Marte, brucia circa metà del carburante.

  • La struttura della sonda è per lo più a nido d’ape in alluminio con fogli di carbone
  • Cablaggio: ci sono circa 4.200 singoli cavi sul veicolo spaziale
  • La sonda Hope avrà forma esagonale. La massa totale sarà di circa 1 500 kg, incluso il propellente, e misurerà 2,37 metri per 2,90 metri

Ecco il Link all’articolo:
Gli Emirati alla conquista del pianeta rosso


Controlli finali in corso prima del lancio della Sonda Hope il 15 luglio

Da: Emirates News Agency
Venerdì 03-07-2020 18:10 PM

TANEGASHIMA, 3 luglio 2020 (WAM) – I controlli finali e i test sulla Missione Hope Mars degli Emirati sono attualmente in corso, mentre si prepara per il suo lancio verso l’orbita del Pianeta Rosso.

È previsto il lancio mercoledì il 15 luglio 2020 alle 00:51:27 (ore degli Emirati Arabi Uniti) dal Centro Spaziale Tanegashima, TNSC, in Giappone. I controlli finali sono guidati da una squadra impressionante di giovani Emiratini.

Il team EMM comprende Ahmed Al Yammahi, Mahmood Al Awadhi, Mohammed Al Aemri, responsabili delle operazioni meccaniche incluso l’ascensore spaziale; Essa Al Mehairi, responsabile della carica della batteria e del monitoraggio dei veicoli spaziali; Yousuf Al Shehhi è stato incaricato della chiusura di MLI; Omar Al Shehhi responsabile del test di vitalità e monitoraggio dei veicoli spaziali; e Khalifa Al Mehairi che ha la responsabilità del monitoraggio dei veicoli spaziali.

La sonda è stata sottoposta ad una serie di test dal suo arrivo al centro di Tanegashima ad aprile. Questi test, che vengono effettuati per un periodo di 50 giorni lavorativi, comportano test funzionali dei sottosistemi di veicoli spaziali che includono energia elettrica, comunicazione, controllo dell’altitudine, comando e controllo, propulsione, controllo termico e sistemi software.

Il processo include anche il riempimento del serbatoio del carburante con circa 800 chilogrammi d’idrogeno e la garanzia che non vi siano perdite. Richiede anche spostare la sonda sulla piattaforma del lancio, installare la sonda sul razzo e assicurarsi che le batterie siano completamente cariche prima del decollo.

Dopo il rifornimento, il team della Missione Emirates Mars, EMM, assicurerà che l’isolamento multistrato, il MLI e i dispositivi di carica siano adeguatamente sigillati. Dopo, ci saranno le operazioni congiunte con Mitsubishi Heavy Industries, MHI, per alimentare il veicolo spaziale per il test di resistenza, confermare i preparativi e caricare le batterie del veicolo spaziale, nonché prepararlo per il decollo. Questa fase comprende tre test principali, tra cui ricarica della batteria, test di vitalità e monitoraggio dei veicoli spaziali.

È previsto il decollo della sonda Hope il 15 luglio 2020. La data di lancio prevista rappresenta l’avvio della finestra di lancio per la missione, che si estende al 3 agosto 2020 – al fine di garantire che la sonda raggiunga l’orbita desiderata nel più breve tempo e la minima energia possibili. Il processo di decollo comprenderà due fasi. La prima inizia con il propellente a combustibile solido che solleva il razzo dopo la separazione dalla piattaforma di lancio – questa parte si separa automaticamente dopo aver completato la sua missione. Ciò porta alla seconda fase fino al terzo stadio – che dura fino a quando la sonda raggiunge la sua orbita attorno a Marte. Il veicolo di lancio MHI H2A pesa 289 tonnellate ed è di 53 metri di lunghezza.

La piattaforma MHI H2A è stata scelta grazie alla sua comprovata esperienza e reputazione nella tecnologia spaziale in tutto il mondo e ai suoi alti tassi di successo nel lancio di veicoli spaziali e satelliti a livello globale. Da parte loro, gli Emirati Arabi Uniti hanno già collaborato con MHI per lanciare con successo il satellite Khalifa Sat. La sonda Hope dovrebbe entrare nell’orbita di Marte nel febbraio 2021, in coincidenza con le celebrazioni del Giubileo d’oro degli Emirati Arabi Uniti per celebrare la storica unione degli Emirati.

“L’inizio dei controlli e dei test finali sulla sonda Hope in linea con il nostro programma ribadisce il nostro impegno e il processo di pianificazione dettagliata per garantire il successo di questa missione. Siamo grati alla saggia leadership degli Emirati Arabi Uniti per il loro supporto senza sosta, gli sforzi incessanti e la dedizione del team che lavora al progetto per completare con successo questa missione”, ha affermato il dott. Ahmad bin Abdullah Humaid Belhoul Al Falasi, Ministro di Stato per l’Istruzione Superiore e le Competenze Avanzate e Presidente dell’Agenzia spaziale degli Emirati Arabi Uniti.

Ha detto che il team ha più volte superato le sfide per raggiungere i traguardi stabiliti. “Il raggiungimento del successo contro tutte le previsioni rispecchia la forte eredità e identità degli Emirati Arabi Uniti, quale ” l’Impossibile è possibile “, radicata nella cultura dei giovani uomini e donne di questo Paese”, ha aggiunto.

Il dott. Ahmad Belhoul ha ribadito che la sonda Hope rappresenta le ambizioni degli Emirati Arabi Uniti e il loro messaggio positivo di speranza nella regione e nel mondo. “Il messaggio principale è quello di lottare con passione e superare gli ostacoli per trovare soluzioni a beneficio dell’umanità in generale, il che esemplifica la visione della leadership degli Emirati Arabi Uniti. Siamo fiduciosi che la sonda Hope raggiungerà l’orbita di Marte nel febbraio 2021, in coincidenza con le celebrazioni del Giubileo d’oro degli Emirati Arabi Uniti” , ha detto.

Suhail AlDhafri, Vicedirettore del progetto della Missione Mars Emirates e capo del veicolo spaziale, ha dichiarato: “I controlli finali sono passi importanti per garantire che tutti i sistemi funzionino e soddisfino i requisiti prima del rifornimento. Ottenere questi parametri è fondamentale prima di preparare la sonda per il decollo”.

Un team emirati sta guidando l’operazione e supervisionando ogni aspetto della preparazione della sonda per il suo lancio. Il team comprende Omran Sharaf Al Hashemi, Direttore del Progetto Mars Mission Hope Probe degli EAU, Suhail Al Dhafari Al Muhairi, Vice Direttore di Progetto della Squadra di Sviluppo, Omar Al Shehhi, Leader della Squadra di Lancio, Mohsen Al-Awadhi, Risk Manager, Youssef Al -Shehhi, Ingegnere dei sistemi termici, Khalifa Al-Muhairi, Ingegnere dei sistemi di comunicazione, Issa Al-Muhairi, Ingegnere dei sistemi di alimentazione, Ahmed Al-Yamahi, Ingegnere dei sistemi meccanici, Ingegnere dei sistemi meccanici Mahmoud Al-Awadhi e Mohammed Al-Amri, Ingegnere di Sistemi di supporto a terra.

A seguito della pandemia di COVID-19, il team che lavora alla Missione è diviso in tre sotto-team – mettendo in considerazione le sfide relative ai trasporti, ai viaggi, alla logistica e all’adesione alle procedure sanitarie. Mentre il primo gruppo di membri del team ha raggiunto il Giappone il 6 aprile ed è stato sottoposto a quarantena obbligatoria e controlli sanitari, il secondo team è arrivato il 21 aprile.

La terza squadra è ancora negli Emirati Arabi Uniti e offre il supporto necessario alla Missione. Il trasporto della sonda Hope da Dubai al sito di lancio sull’isola di Tanegashima in Giappone è durato più di 83 ore e ha subito tre tappe principali.

WAM / Hazem Hussein

Ecco il Link all’articolo:
Final checks under way ahead of the Hope Probe’s launch on July 15

Circolo di Osservazione Scientifico-tecnologica di Modena. Missione: divulgare scienza a tutti