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Trovati i resti del planetoide Theia nelle profondita’ terrestri

Gli scienziati hanno trovato i resti del planetoide Theia, che si e’ scontrato con la Terra 4 miliardi e mezzo di anni fa, strappandogli ampie porzioni di mantello e dando cosi’ luogo alla formazione della Luna.


Questa teoria, della nascita della Luna per impatto di un planetoide, era uno dei principali risultati scientifici delle missioni Apollo: la Luna e’ fatta di Terra, in particolare di mantello terrestre.
I resti di Theia si troverebbero, disposti in modo non uniforme, sulla superficie esterna del nucleo ferroso del nostro pianeta, circa 2900 Km sotto la superficie.


Era gia’ noto da alcuni decenni la presenza di due massicci “blobs” di materiale lassivo, di diverse migliaia di Km di dimensione orizzontale e spessi alcune centinaia di Km, posizionati nelle profondita’ sotto al mantello. Uno si trova sotto l’Africa e uno sotto l’Oceano Pacifico.


Questi blobs sono chiamati “large low-velocity provinces” (LLVP per gli amici…) a causa della differente velocita’ con cui le onde sismiche si propagano attraverso essi, rispetto alla velocita’ di propagazione nel mantello e nel nucleo ferroso della Terra.

I risultati della ricerca sono pubblicati sulla rivista scientifica Nature.

Si noti comunque che questa tesi e’ una di quelle possibili: un’altra interpretazione attribuisce l’origine degli LLVP a rimanenze di crosta oceanica finita nel mantello per subduzione miliardi di anni fa.

Commento redatto da Davide Borghi

Articolo su “Nature”, a cui si fa riferimento:

https://www.nature.com/articles/s41586-023-06589-1.epdf?sharing_token=nqg1_93hPSU85C7twBAzR9RgN0jAjWel9jnR3ZoTv0OUGDu6sS_mNfR5UvQfwmQuhRBG9RUEBCCNnqd9DYb0Af1sH0DFPRJ8mdBQFieBE-5vvedOZ_aS6wmrxslx9ti28U_9-dEYmgJpaYjmcS-7UZAesbzTGQ1Y1sHE-wS6Qj4yt6fiGAJYWlD8HDEvN0rufQLSLmKQX4lqpGNlWJvIMK3xNk-z25RMqAA_Vl7hgCI%3D&tracking_referrer=edition.cnn.com

L’Ultima Primavera dei Dinosauri

Gli scienziati hanno individuato il periodo dell’anno nel quale cadde la cometa (o l’asteroide) che estinse i dinosauri

Sessantasei milioni di anni fa ci fu una giornata veramente brutta per i dinosauri.

Non solo per loro, ma per tutti gli esseri viventi, visto che da quel momento in poi il 75% delle specie sulla Terra si estinse in breve tempo. Non c’è dubbio ora che il principale motore di questo omicidio di massa, chiamato evento di estinzione di K-Pg, fu un enorme impatto di un corpo celeste, un asteroide o forse una cometa. Un oggetto di 10 chilometri di diametro che si schiantò contro il pianeta appena al largo della costa dello Yucatan. Si creò un cratere largo circa 150 chilometri ed avvennero una serie di eventi catastrofici, sia immediati che a lungo termine, che spazzarono via la maggior parte della vita sulla Terra.

Non sappiamo la data esatta di questo evento, ma gli scienziati stanno scoprendo in che periodo dell’anno è avvenuto. E sembra che quel giorno del mese di giugno sia stato davvero, davvero brutto.

Conoscere il periodo dell’anno dell’impatto è interessante perchè influisce sulla biologia. Ad esempio, è più probabile che una specie sopravviva se l’evento si verifica dopo che ha deposto le uova in un luogo protetto. Anche se gli adulti venissero spazzati via, una seconda generazione potrebbe comunque avere una possibilità. Influisce anche su quanto tempo potrebbe essere necessario alle piante per riguadagnare il loro posto nelle nicchie ambientali aperte dall’impatto, o quali specie potrebbero dominare nel breve termine dopo l’impatto.

Già in passato furono proposte ipotesi che l’impatto avvenne tra la tarda primavera e l’inizio dell’estate , ma non ci fu un vero e proprio consenso. Tuttavia, un nuovo articolo appena pubblicato ha portato nuove prove piuttosto valide che il periodo proposto in passato sia proprio quello giusto.

Nella nuova ricerca, gli scienziati si sono rivolti al sito fossile di Tanis nel Nord Dakota occidentale. Il sito fa parte della vasta formazione di Hell Creek, uno strato geologico che si estende su diversi stati americani e deposto proprio al momento dell’impatto. Circa 10-13 minuti dopo l’impatto in Messico, immense onde sismiche hanno attraversato il sito di Tanis, provocando inondazioni che molto probabilmente provenivano dal vicino Western Interior Seaway , un mare enorme ma poco profondo che all’epoca correva da nord a sud attraverso il Nord America occidentale. Questo a sua volta ha creato quella che viene chiamata una sessa, un’enorme onda stazionaria in acqua che può generare onde alte un centinaio di metri. E’ accaduto, in una scala molto più grande, quello che avviene quando ti muovi avanti e indietro in una vasca da bagno in sincrono con le onde generate, amplificando i picchi abbastanza da schizzare l’acqua fuori dalla vasca.

Solo che in quel caso le onde che sono schizzate fuori dal lago erano alte come un palazzo di 20 piani…

E’ proprio quello che accadde a Tanis e, grazie alla geografia dell’area abbiamo una risoluzione temporale estremamente precisa degli eventi. Nel sito ci sono tanti fossili inclusi pesci, insetti, piante e altro ancora. Ebbene: esaminando questi fossili, è possibile capire in che periodo dell’anno è avvenuto l’impatto.

Ma come hanno fatto??!? Gli scienziati hanno esaminato i fossili di storione, in particolare la punta della pinna pettorale. Lo storione è anadromo, ovvero migra dal fiume al mare e viceversa, quindi passa dall’acqua dolce a quella salata. La sua migrazione è stagionale e la crescita delle ossa nello storione dipende dunque dal periodo dell’anno. La crescita di questo osso appuntito si è interrotta improvvisamente sulla punta, sicuramente a causa della morte del pesce per l’impatto.

Ma la chiave di tutto è negli elementi di cui è composto l’osso. La concentrazione dell’isotopo ossigeno-18 nelle ossa fluttua durante l’anno. Quando il pesce è in acqua dolce non c’è tanto ossigeno-18. Quando è in acqua salata di mare l’isotopo viene incorporato maggiormente nelle ossa. È vero il contrario per l’isotopo carbonio-13: il suo assorbimento è maggiore in acqua dolce ed inferiore in acqua di mare.

Gli scienziati hanno visto queste abbondanze salire e scendere nella lisca di pesce mentre le tracciavano verso la punta. In più sono sfasate (quando una sale l’altra scende e viceversa), una chiara indicazione delle fluttuazioni stagionali. Tracciando queste fluttuazioni, gli scienziati hanno scoperto che l’impatto è avvenuto in tarda primavera o all’inizio dell’estate.

Fluttuazioni stagionali degli isotopi di O-18 e C-13 nella pinna dello storione

Hanno trovato la stessa cosa nelle effimere. Questi insetti scavano nel legno per deporre le uova che si schiudono durante un brevissimo intervallo poche settimane all’inizio della primavera. Il fatto che le effimere adulte siano state trovate fossilizzate mostra che l’impatto è avvenuto mentre le effimere adulte erano attive, quindi dopo la schiusa delle uova. I loro corpi sono fragili, quindi l’impatto deve essere avvenuto all’inizio della loro età adulta, altrimenti non sarebbero stati trovati fossili intatti.

Inoltre, alcune larve di insetti mangiano le foglie, lasciando tracce caratteristiche (questo è chiamato leaf-mining, un termine adorabile). I solchi intatti in alcune foglie fossilizzate, comprese alcune ancora attaccate ai rami, mostrano che le larve si nutrivano attivamente al momento dell’impatto. E questo è un altro indizio che punta verso la primavera/estate, quando le larve sono impegnate ad ingrassare e crescere prima della metamorfosi.

Tutto ciò è veramente sorprendente. Solo pochi anni fa l’ipotesi dell’impatto dell’asteroide era molto controversa. Ora non solo è accettata, ma sono emerse ulteriori prove in eventi come l’eruzione vulcanica durata un milione di anni ed avvenuta a causa della forza dell’impatto che apre nuove vie al magma sotterraneo.

Ed ora tutto ciò non solo è accettato, ma gli scienziati possono ipotizzare in quale mese sia successo.

Fonte: Bad Astronomy

Fonte: Nature.com

Fonte: Manchester University

Cometa o asteroide?

Un buco nero nel sistema solare?

La prima sensazione che ci pervade leggendo questo titolo è la paura.

Abbiamo spesso parlato, qui su queste pagine, di buchi neri super massicci con masse di miliardi di volte il Sole e con diametri che ingloberebbero l’orbita di Venere. Beh… tranquillizziamoci! Un buco nero di quella natura e dimensioni non lo potremo mai vedere nel sistema solare per due solide ragioni: 1) la vita in prossimità non potrebbe mai attecchire; 2) un sistema planetario come quello solare  ci sarebbe finito dentro tutto intero. Ma questo è un altro discorso. Se fino ad ora non abbiamo mai visto questo ipotetico e piccolissimo blackhole all’interno del sistema solare, nonostante telescopi a terra di 36 metri di diametro, un motivo ci sarà: forse, oltre ad essere “nero”, molto piccolo e anche molto distante (nella fascia di Kuiper), molto semplicemente non c’è!

Ma è una ipotesi più che lecita e vediamo il perchè.

Tutto è partito diversi anni fa quando i ricercatori hanno cominciato e vedere, oltre Nettuno, strane coincidenze. In quella fascia di Kuiper, dove orbitano tanti asteroidi, una popolazione di piccoli mondi ghiacciati simili a Plutone, non tutti si comportano allo stesso modo. In diversi hanno un’orbita dall’eccentricità anomala o molto più inclinata rispetto a tutti gli altri. Solo il campo gravitazionale di un pianeta piuttosto massiccio potrebbe produrre questi effetti.

Alcuni sono arrivati ​​a sospettare vi sia un pianeta molte volte la massa della Terra. E così la presenza di “Planet 9” viene più volte richiamata sul palcoscenico del Sistema solare. Nel 2016 furono annunciate le prove indirette della sua esistenza. Ma nessuno lo ha mai visto. Troppo lontano e buio. Si pensa sia una “super-Terra”, da cinque a dieci volte la massa del nostro Pianeta, dovrebbe trovarsi talmente lontano (da almeno 300 volte la distanza Terra-Sole, circa 45 miliardi di chilometri, fino a mille volte tanto) da essere praticamente invisibile a qualsiasi telescopio ottico.

Il problema è che nessuno può immaginare come un pianeta abbastanza grande da farlo possa formarsi così lontano dal sole. 

Ecco che dal momento che dalle osservazioni si deduce in modo indiretto solo la massa dell’oggetto allora un anno fa è venuto il sospetto che possa essere un buco nero primordiale.

Senza dubbio la trama del film di fantascienza “Interstellar” ha pescato proprio da questi dubbi.

Se fosse vero, sarebbe una scoperta sensazionale. 

I buchi neri primordiali ci darebbero una nuova finestra sull’universo primordiale. Potrebbero persino comprendere la materia oscura, la misteriosa sostanza che tiene insieme le galassie. Tutto ciò spiega perché i cosmologi hanno setacciato l’universo per loro. Ma nessuno aveva osato sognare che avremmo potuto trovarne uno nel nostro cortile.

A suggerire questa ipotesi sono stati due fisici: Jakub Scholtz, dell’Università di Durham e James Unwin, dell’università di Chicago e Berkeley.

Lo studio, tuttavia, è stato pubblicato solo sulla piattaforma Arxiv e pare non sia stato nemmeno sottoposto a una rivista per essere valutato da altri esperti (peer review).

Ma la loro teoria sta già facendo il giro del mondo perché è suggestiva e coinvolge un tipo di oggetti ancora solo teorizzati e mai osservati, nemmeno nei loro effetti.

Come premesso in apertura non stiamo parlando di un gigante super massiccio divoratore di stelle e pianeti. Quelli stanno al centro delle galassie. Né di un buco nero di massa stellare che si trovano in giro per il cosmo, magari in coppia con altre stelle. L’ipotesi di Scholtz e Unwin è ancora più suggestiva: un buco nero primordiale. Si tratta di oggetti, per ora solo teorizzati, che potrebbero essersi formati quando l’Universo era ancora giovanissimo e la concentrazione di materia era talmente densa da formare piccoli buchi neri, con masse di molto inferiori a quella necessaria per formarne uno “di massa stellare” (che si origina dal collasso di una stella molto più massiccia del Sole).

Quello che dovremmo cercare è dunque un buco nero davvero minuscolo, dalle cinque alle dieci masse terrestri che starebbero comodamente nel palmo di una mano.

Dieci Terre starebbero dentro ad una palla da bowling!

La loro teoria sta in piedi perché dal momento che è impossibile che nella formazione di una stella come il Sole, un pianeta roccioso così grosso si formi a quella distanza, si ipotizza che l’eventuale pianeta 9 possa essere di origine extrasolare e che sia stato catturato dalla gravitazione solare. Ma questa teoria ha le stesse probabilità che ha un buco nero primordiale di essere catturato nello stesso modo. In astronomia le teorie non osservabili stanno in piedi con le percentuali, quindi una vale l’altra.

Ma come trovarlo visto che si tratta di un oggetto molto più “nero” di un pianeta? Come per tutti i buchi neri, occorre osservare gli effetti su quello che lo circonda. In particolare, materia oscura.
Secondo Unwin e Scholtz, l’alone di materia oscura che lo circonderebbe potrebbe estendersi per otto unità astronomiche (un miliardo e 200 milioni di chilometri, la distanza tra la Terra e Saturno). Come la Relatività generale insegna (e abbiamo sperimentato) la gravità piega anche la luce. Tutta quella materia (oscura e non) dovrebbe dunque generare un effetto di “lente gravitazionale”, deviando l’immagine delle stelle sullo sfondo. Oggetti così piccoli danno origine a microlensing. Il progetto polacco Ogle, a caccia di materia oscura e richiamato nello studio, ne ha osservati diversi.

Secondo l’ipotesi, dunque, i segnali da ricercare per scovare il misterioso intruso ai confini del Sistema solare sono quelli tipici di un buco nero, alte energie come raggi X e raggi gamma.

Il bello è che in Fisica e tra le stelle, per la scienza, non si può mai escludere nulla. Nemmeno ipotesi più ardite come questa del buco nero.

Tuttavia, resterà il dubbio sui calcoli dei due fisici, se il loro lavoro non sarà sottoposto a revisione da altri colleghi.

Come si sono formati questi ipotetici buchi neri primordiali?

(da un articolo di Leah Crane): all’inizio “la luce fu”. 

Poi, apparvero altre macchie scure, la luce le circondava prima di cadervi dentro come acqua in uno scarico. 

Questi sarebbero stati i primi abitanti del nostro universo, strani piccoli buchi neri che si rimpinzavano delle radiazioni fuoriuscite dal big bang.

Man mano che il cosmo si espandeva e si raffreddava, i loro banchetti rallentarono.

Dopo milioni di anni, parte della radiazione che aveva riempito il cosmo lsciò il posto alla materia, che alla fine si è aggregò per formare le prime stelle, pianeti e galassie. 

Nel corso del tempo, alcune stelle sono diventate così grandi che quando hanno esaurito il carburante e sono collassate, si sono trasformate in buchi neri. Ma cosa è successo ai loro lontani antenati dall’alba dei tempi? Forse quei primissimi buchi neri primordiali svanirono (radiazione di Hawking) o forse erano abbastanza grandi da sopravvivere fino al presente. In ogni caso, potrebbero aiutare a risolvere alcuni dei maggiori problemi della cosmologia. 

Sempre che siano mai stati lì.

Commentato da Luigi Borghi.

Link correlati

https://www.lescienze.it/news/2019/10/09/news/buco_nero_primordiale_sistema_solare_trans-nettuniano-4577376/

https://www.universoastronomia.com/2020/07/13/pianeta-nove-e-un-buco-nero-primordiale/

Il radiotelescopio di Arecibo ci manca.

Oggi ho pensato di ripescare il disastro del radiotelescopio di Arecibo a Porto Rico, il più potente del mondo prima dell’avvento del FAST cinese, perché leggendo un articolo su Space Daily (che vi propongo nel link) appare evidente l’importanza che aveva questa parabola da 300 metri nel mondo scientifico.

“Secondo la NASA questo crollo renderà difficili alcune osservazioni di una imminente missione su asteroidi”.

Vediamo perché.

La NASA, in collaborazione con altre agenzie, sta studiando e sviluppando un metodo per deviare la traiettoria di un asteroide qualora si riscontrasse una rotta di collisione con la Terra. Un progetto che prevede l’individuazione del pericolo di collisione diversi anni prima dell’impatto, cosa che oggi siamo in grado di fare.

Nel nostro caso specifico si tratta della missione Double Asteroid Redirection Test (DART).

L’obiettivo principale della missione sugli asteroidi DART, che avrà luogo nel 2022, è quello di far schiantare un veicolo spaziale contro una piccola luna che orbita attorno all’asteroide Didymos e osservare come l’impatto influisce sul suo movimento. 

L’osservazione iniziale di tale impatto non sarà influenzata molto dalla perdita di Arecibo, ma le immagini radar di follow-up saranno limitate a un telescopio radar più piccolo e meno sensibile, il Goldstone Observatory nella California meridionale, che fa parte del sistema Deep Space Netwok (DSP) utilizzato per la comunicazione con le sonde interplanetarie.

Arecibo avrebbe potuto dare un valore aggiunto a tale missione, usando il potente radar per confermare ciò che i telescopi ottici osserveranno comunque sull’impatto dalla luce riflessa.

Senza Arecibo, utilizzando solo Goldstone, questo sarà più difficile, ma sarà comunque realizzabile.

SpaceX prevede di lanciare il veicolo spaziale DART dalla base dell’aeronautica di Vandenberg in California. Il costo totale della missione è di circa 320 milioni di dollari, incluso il lancio.

Ma quale sarà il futuro di questa struttura? Si ricostruirà un radiotelescopio più potente?

Qui si evidenzia di nuovo la guerra di pensiero tra chi sostiene lo spazio come ambiente ideale per investire in telescopi (necessariamente più piccoli e costosi oltre che difficilmente manutenibili) e chi invece preferisce la terra con grandi telescopi a portata di mano.

La National Science Foundation (NSF), proprietaria della struttura di Arecibo, ha affermato che un nuovo progetto di costruzione di questo tipo dovrebbe seguire il processo dell’organizzazione per la costruzione di nuove strutture importanti, in altre parole ripartire da zero.

Arecibo è gestito da una coalizione di organizzazioni guidata dall’Università della Florida centrale la quale apprezza che la NSF abbia in programma di mantenere aperte alcune strutture dell’osservatorio, tra cui il centro visitatori e una parabola di soli 12 metri di diametro.

La fondazione prevede anche una serie di seminari a giugno per ascoltare idee per il futuro di Arecibo.

È impressionante la precisione temporale con la quale era stato previsto il crollo. Come si vede da questo video c’era un drone in volo con l’obiettivo rivolto proprio verso il cavo che per primo si è rotto ed ha dato inizio al disastro.

I cavi del telescopio si erano lesi nei mesi precedenti il ​​crollo, ma gli investigatori non sono ancora in grado di individuare la causa di quei guasti. La struttura, fino al suo collasso, era stata uno strumento principale per un consorzio di scienziati noto come NANOgrav per studiare i buchi neri supermassicci basati sulla rilevazione delle onde gravitazionali.

In un documento pubblicato a dicembre, gli scienziati che hanno utilizzato Arecibo hanno delineato le loro speranze per un nuovo e più potente telescopio radar da ricostruire ad Arecibo.

Questo processo potrebbe richiedere anni poiché la comunità astronomica esamina le priorità a lungo termine.

Il piatto di Arecibo è stato costruito a Porto Rico perché gli scienziati avevano individuato una valle delle dimensioni e della forma giuste per supportare la sua enorme struttura. 

Ovviamente io spero che venga ricostruito, più moderno e magari con la possibilità di entrare in rete interferometrica con il FAST cinese. Sarebbe un goal per l’osservazione del cosmo, per la collaborazione internazionale… ma forse resterà un sogno. Io però ci credo al punto che Arecibo è un protagonista nel mio nuovo romanzo “Civiltà scomparsa”, che uscirà a giorni, dove nel 2074 verrà utilizzato per una nuova impresa di comunicazione con…. Beh, basta così. Altrimenti non ci sarà soddisfazione nel leggerlo. Manderò un messaggio quando vi sarà la presentazione on line sul canale 85 del digitale terrestre TVB studio 85, con il giornalista Tito Taddei nella sua rubrica Observer.

Commento di Luigi Borghi.

Ecco l’articolo che trovate su:

https://www.spacedaily.com/reports/Arecibo_telescope_collapse_may_complicate_NASA_asteroid_mission_999.html

Il filmato del collasso.

Anche le galassie muoiono.

Non è una scoperta! È una conclusione scientifica. Se le stelle muoiono ovviamente anche le galassie, che loro stesse formano, dovranno prima o poi soccombere. Ma questa è la prima volta che viene documentato, attraverso osservazioni, un fenomeno del genere.
Gli astronomi, per la prima volta, sono riusciti ad osservare l’imminente morte di una galassia molto lontana: la ID2299. In particolare, sono riusciti ad individuare che la galassia stava espellendo quasi la metà del gas presente al suo interno per la formazione delle stelle. La rara osservazione è stata ripresa utilizzando l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA), un telescopio presente in Cile.

La luce di questa galassia, nota come ID2299, ha impiegato circa nove miliardi di anni per raggiungere la Terra. Ciò significa che gli astronomi stanno essenzialmente osservando come appariva quando l’universo aveva solo 4,5 miliardi di anni (ora ha circa 14 miliardi di anni).

La galassia ID2299 sta perdendo gas pari a 10.000 soli all’anno, il che sta riducendo il carburante di cui ha bisogno per formare stelle rimuovendo il 46% del gas freddo totale della galassia fino ad ora.

Ma la galassia con il gas rimanente sta ancora formando rapidamente nuove stelle a una velocità centinaia di volte maggiore della nostra Via Lattea. Questo significa che consumerà il resto del gas causandone effettivamente la morte in poche decine di milioni di anni. Un flash temporale nei tempi dell’universo.

La rappresentazione artistica mostra la galassia ID2299, il risultato di una collisione tra galassie, e parte del suo gas mentre viene espulso in una “coda mareale” come risultato della fusione. Nuove osservazioni fatte con ALMA, di cui l’ESO è un partner, hanno catturato le primissime fasi di questa espulsione, prima che il gas raggiungesse le grandi scale rappresentate nell’immagine. Crediti: ESO/M. Kornmesser

Credit https://diggita.com/v.php?id=1661430

I ricercatori intendono usare ancora il radiotelescopio ALMA per ottenere osservazioni a risoluzione ancora superiore e più profonde della galassia ID2299 per capire meglio le dinamiche del gas espulso. Gli studi sui meccanismi di evoluzione delle galassie stanno diventando sempre più sofisticati, in questo caso per capire cosa possa portare alla morte di una galassia.

Il nostro Universo è un libro di storia aperto dove è possibile vedere in tempo reale il passato delle galassie lontane, con il quale poi comprendere sempre più le leggi che lo governano.

Lo studio è stato pubblicato lunedì sulla rivista Nature Astronomy .

Commentato da Luigi Borghi.

Eccovi l’articolo.

http://www.coelum.com/news/una-galassia-che-muore

http://nataleseremia.com/2021/01/11/osservata-la-morte-di-una-lontana-galassia/

Lo spessore dei ghiacci di Ganimede

Uno studio italiano su Ganimede riporta una stima di 105-130Km di spessore di ghiaccio che si trova sopra l’oceano di acqua liquida sottostante. Sono stati analizzati migliaia di solchi (grooves) in 4 regioni equatoriali di Ganimede: Uruk Sulcus, Babylon Sulci, Phrygia Sulcus e Mysia Sulci. Tutto questo in attesa della missione europea JUICE che partira’ l’anno prossimo verso le lune di Giove.

Rappresentazione ipotetica della struttura interna di Ganimede.
Source: https://scitechdaily.com/jupiters-moon-ganymede-may-oceans-ice-stacked-multiple-layers/

E’ dagli anni ’70 del secolo scorso che gli scienziati sospettano di un oceano sotto la superficie ghiacciata di Ganimede e di altri corpi del Sistema Solare esterno (ad esempio Europa, Callisto, ma anche Titano, Encelado, e forse Plutone, Rhea, Titania, Oberon, Tritone, Sedna, e altri ancora) . Ma e’ con le missioni Voyager e soprattutto con la missione Galileo che arrivano le evidenze per 3 dei 4 satelliti medicei di Giove. Il campo magnetico misurato in prossimita’ di Ganimede (come per Europa e Callisto), non puo’ essere generato con un interno del corpo fatto esclusivamente di ghiaccio solido e roccia. Suggerisce invece la presenza di una gigantesca riserva di acqua liquida conduttiva (quindi possibilmente “salata”). Stiamo parlando di quantita’ di acqua liquida enormi: superiore a quella di tutti gli oceani terrestri messi assieme!

Il punto di fusione dei ghiacci e’ significativamente ridotto dalla presenza di sali e/o metano e ammoniaca, che sono entrambi abbondanti in queste parti del Sistema Solare. Un’analisi pubblicata nel 2014, frutto dei dati della sonda Galileo, suggerisce la presenza di diversi strati alternati di ghiaccio e acqua liquida. Lo strato di acqua inferiore sarebbe in contatto col substrato roccioso, cosa importante per la eventuale presenza di condizioni favorevoli all’insorgere della vita. Ulteriori rilevazioni fatte con il telescopio spaziale Hubble (HST) su come si muovono le aurore (frutto del campo magnetico) hanno confermato la presenza di oceani nell’interno di Ganimede, che potrebbero essere i piu’ vasti, in volume, dell’intero Sistema Solare. E ci sono congetture sulla potenziale abitabilita’ di tali oceani da parte della vita.

Proiezioni ortografiche di Ganimede. Le faglie sono in arancione.
Fonte: A. Lucchetti et al., Planetary and Space Science, 2020

Ora, la novita’ e’ un articolo pubblicato pochissimi giorni fa, il 4 Gennaio 2021 su planetary and Space Science, che riporta i risultati di una ricerca svolta dal team guidato da Alice Lucchetti, dell’INAF di Padova. Hanno analizzato migliaia di fratture nei ghiacci di Ganimede (letteralmente “into the groove”, come diceva Madonna) in 4 regioni predefinite del satellite di Giove, e hanno calcolato uno spessore della crosta del primo strato di ghiaccio, che va da 105Km a 130Km. Sotto ci sarebbe uno strato composto da acqua liquida, poi forse altri strati alternati di neve di ghiaccio III, acqua, ghiaccio V, acqua, ghiaccio VI, acqua, roccia e infine il nucleo di ferro e nickel, che spiegherebbe il campo magnetico.

Da analisi precedenti si e’ ipotizzata l’interfaccia piu’ profonda acqua-roccia a circa 800Km di profondita’.

Il ghiaccio del primo strato (quello di 105-130Km) e’ ghiaccio di Tipo I. ovvero quello che usiamo per i cocktails e che copre Artide e Antartide sulla Terra, a pressione atmosferica (100kPa). E’ il meno denso di tutti, ed e’, com’e’ noto, piu’ leggero dell’acqua. Ma alle tremende pressioni che ci sono nelle profondita’ di Ganimede, le strutture cristalline del ghiaccio si fanno piu’ compatte, diventando piu’ pesanti dell’acqua, fino ad arrivare al ghiaccio VI che si forma attorno a 1GPa di pressione. (Sono possibili, non su Ganimede, anche forme di ghiaccio ancora piu’ compatto: fino a ghiaccio XI a 1TPa di pressione)

Sulla superficie di Ganimede sono state contate 14707 fratture (grroves), e il team INAF ne ha analizzate 1068 nella regione Uruk Sulcus, 882 in Babylon Sulci, 678 in Phrygia Sulcus, e 987 in Mysia Sulci.

Le fratture piu’ corte (inferiori ai 200Km) dovrebbero essere quelle solo superficiali, mentre qulle piu’ lunghe dovrebbero essere quelle che arrivano fino all’acqua sottostante.

Sono state usate tecniche di analisi statistica sviluppate e validate sul nostro pianeta, per ottenere la massima profondita’ alla quale le fratture si propagano. Oltre alla stima dello spessore del ghiaccio, e’ stato anche trovato che le fratture che spaccano il primo strato di ghiaccio in profondita’ sono quelle che si trovano fra le zone scure e quelle chiare di Ganimede. La stratificazione di Ganimede provoca anche fenomeni strani, come le nevicate verso l’alto, neve che potrebbe fondere prima di raggiungere lo strato di ghiaccio sovrastante, lasciando uno strato intermedio di neve flottante semi-sciolta. Questa struttura a strati di un sandwich mi ricorda i shell-worlds del romanzo di fantascienza “Matter” di Iain M. Banks (gli stessi romanzi da cui Elon Musk ha preso i nomi della piattaforme dei Falcon 9, come “Of course I still love you”, and “Just read the instructions”).

Rappresentazione della sonda europea JUICE con i pannelli solari aperti.
Fonte: https://sci.esa.int/web/juice

Ma torniamo alla scienza. Questi risultati di INAF sono importanti per la prossima missione europea JUICE (JUpiter ICy moons Explorer), ovvero la prima missione ESA in grande scala, parte del Programma 2015-2025. Verra’ lanciata il prossimo anno, arrivera’ in orbita attorno a Giove nel 2029, e poi spendera’ almeno 3 anni facendo dettagliate osservazioni dei 3 satelliti Ganimede, Callisto, Europa.

La sonda JUICE in assemblaggio a Friedrichshafen in Germania.
Fonte: https://sci.esa.int/web/juice/-/-6-start-of-assembly-and-integration-for-juice

La sonda e’ ad uno stadio avanzato di sviluppo, con l’assemblaggio iniziato a fine 2019 e continuato durante tutto il 2020, nonostante la pandemia, presso Friedrichshafen in Germania. A Ottobre 2020 sono anche arrivati i ben 10 giganteschi pannelli solari. La sonda necessita infatti di una grande superficie di pannelli a causa dell’enorme distanza dal Sole. Le sonde Voyager 1, 2, Pioneer 10, 11 e la New Horizons, ad esempio, non avevano pannelli siccome potevano contare sull’affidabile e duraturo RTG (Radioisotope Thermoelectric Generator) al Plutonio, mentre la sonda americana Juno, tuttora attiva in orbita sempre attorno a Giove, ha anch’essa giganteschi pannelli solari, siccome la singola partita di RTG fabbricati decenni fa si era esaurita (ma niente paura: ora ne sono stati fabbricati altri, ad esempio per le missioni marziane Curiosity e Perseverance, grazie ad altro Plutonio 238 procurato dal US Department of Defense).

Arrivano i primi strumenti da montare sulla sonda.
Fonte: https://sci.esa.int/web/juice/-/-6-start-of-assembly-and-integration-for-juice

Nelle prossime settimane la sonda JUICE verra’ portata al ESTEC (ESA Space Technology & Research Centre) a Noordwijk nei Paesi Bassi, dove verra’ testata e calibrata. In parallelo e’ in corso l’engineering model testing a Tolosa in Francia e comandato dall’ESOC situato a Darmstadt, Germania. Alcuni strumenti sono forniti dalla NASA, come il Ultraviolet Spectrograph (UVS), che e’ appena arrivato in Germania dalla SRI di San Antonio, Texas. Un vero e proprio international effort!

Davide Borghi

Bibliografia:

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0032063320303536

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0019103506002016

https://sci.esa.int/web/juice

Alla ricerca del pianeta 9.

Il pianeta nove di cui si parla qui è un ipotetico grosso pianeta che si troverebbe una ventina di volte più lontano dal Sole di Plutone, ma che avrebbe una massa di una decina di volte la nostra Terra. Ovviamente non lo ha mai visto nessuno! La luce del Sole è talmente fioca che, a quella distanza, il pianeta non la riflette a sufficienza per essere visto.

Qui sotto una immagine artistica del pianeta 9.

Vi sono però alcuni corpi della Fascia di Kuiper che hanno orbite tali da essere giustificabili solo con la presenza di una grossa massa che orbita da quelle parti.

Questo fantomatico pianeta nove mi ha sempre intrigato parecchio, al punto che ci ho pure scritto un libro “Civiltà scomparsa” che uscirà ai primi del 2021.

Nella mia avventura è solo un pianeta errante di passaggio perché è stato scaraventato nello spazio profondo a folle velocità dall’esplosione della sua stella e che attraversa la nostra nube di Oort senza fermarsi. Tutta la storia del libro ruota attorno alla corsa dell’umanità e della protagonista, la planetologa Joy, per arrivare a “toccare” e ad indagare un pianeta extrasolare, che poteva potenzialmente ospitare una civiltà evoluta e che la natura lo offre a “portata di mano”.

Qui, nell’articolo che vi propongo oggi invece si fa sul serio.

Gli astronomi di Yale, Malena Rice e Gregory Laughlin, stanno tentando con un metodo chiamato “spostamento e impilamento” (shifting and stacking), una tecnica che raccoglie la luce diffusa da migliaia di immagini del telescopio spaziale Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS) e identifica i percorsi orbitali per oggetti precedentemente non rilevati.

In poche parole, i due astronomi prendono le migliaia di foto ad altissima risoluzione ricevute da TESS, che fa il suo lavoro di routine, poi le sovrappongono una sull’altra (le impilano), ma spostandole una ad una come se seguissero una ipotetica traiettoria plausibile del pianeta calcolata secondo ipotesi derivate da comportamento di altri corpi trans nettuniani.  Come se seguissero con TESS un potenziale percorso orbitale. In questo modo la eventuale debole luce del pianeta nove verrebbe amplificata mentre i disturbi, le luci delle stelle vicine ed altre luci indesiderate, non sovrapponendosi vengono drasticamente attenuate.

Qui un esempio di questa tecnica con solo 12 immagini.

In questo modo, ogni tanto, la luce rivela il percorso di oggetti assolutamente invisibili altrimenti.

La Rice ha detto che lo spostamento e l’accatastamento sono stati utilizzati in passato per scoprire nuove lune del sistema solare. 

Il Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS), è un telescopio spaziale normalmente utilizzato per cercare pianeti extrasolari di cui abbiamo già parlato su questa homepage e sulla nostra rivista “Il C.O.S.Mo. News”.

Illustrazione artistica di TESS. Credit NASA.

Commento e traduzione di Luigi Borghi.

Eccovi la traduzione tratta da:

https://www.spacedaily.com/reports/Lighting_a_Path_to_Find_Planet_Nine_999.html

Ulteriori link utili:

https://scienceblog.com/519286/lighting-a-path-to-planet-nine/#:~:text=To%20detect%20objects%20that%20are,sets%20of%20potential%20orbital%20paths.

Illuminare un percorso per trovare il pianeta nove.

di Staff Writers. New Haven CT (SPX) 28 ottobre 2020.

La ricerca del Pianeta Nove – un ipotetico nono pianeta nel nostro sistema solare – potrebbe arrivare a individuare le scie orbitali più deboli in un angolo incredibilmente buio dello spazio.

Questo è esattamente ciò che gli astronomi di Yale Malena Rice e Gregory Laughlin stanno tentando con una tecnica che raccoglie la luce diffusa da migliaia di immagini del telescopio spaziale e identifica i percorsi orbitali per oggetti precedentemente non rilevati.

“Non puoi davvero vederli senza usare questo tipo di metodo. Se Planet Nine è là fuori, sarà incredibilmente debole”, ha detto Rice, autore principale di un nuovo studio che è stato accettato dal Planetary Science Journal [https : //psj.aas.org].

Rice, un dottorato di ricerca. studente di astronomia e Graduate Research Fellow della National Science Foundation, ha presentato i risultati il ​​27 ottobre all’incontro annuale della Divisione per le scienze planetarie dell’American Astronomical Society.

La possibilità di un nono pianeta nel sistema solare terrestre, situato oltre l’orbita di Nettuno, ha guadagnato slancio tra gli astronomi negli ultimi anni mentre hanno esaminato le curiose orbite di un ammasso di piccoli oggetti ghiacciati nella fascia di Kuiper. Molti astronomi ritengono che l’allineamento di questi oggetti – e le loro traiettorie – indichino l’influenza di un oggetto invisibile.

Sebbene la stragrande maggioranza della luce osservata dai pianeti nel sistema solare sia luce riflessa, la quantità di luce solare riflessa diminuisce drasticamente per un pianeta distante come il Pianeta Nove, probabilmente da 12 a 23 volte più distante dal Sole di Plutone.

Se esistesse, il pianeta nove sarebbe una cosiddetta super-Terra. Avrebbe da 5 a 10 volte la massa della Terra e sarebbe situato centinaia di volte più lontano dal Sole di quanto lo sia la Terra e da 14 a 27 volte più distante dal Sole di Nettuno, ha detto il professore di astronomia di Yale Gregory Laughlin, autore senior del nuovo studio.

“Questa è una regione dello spazio che è quasi del tutto inesplorata”, ha detto Laughlin.

Per rilevare oggetti altrimenti non rilevabili, Rice e Laughlin utilizzano un metodo chiamato “spostamento e impilamento”. Loro “spostano” le immagini da un telescopio spaziale – come muovere una fotocamera mentre scatta foto – lungo serie predefinite di potenziali percorsi orbitali. Quindi “impilano” centinaia di queste immagini insieme in un modo che combina la loro debole luce.

Ogni tanto, la luce rivela il percorso di un oggetto in movimento, come un asteroide o un pianeta.

Rice ha detto che lo spostamento e l’accatastamento sono stati utilizzati in passato per scoprire nuove lune del sistema solare. Questa è la prima volta che viene utilizzato su larga scala per cercare una vasta area di spazio. Le immagini che lei e Laughlin hanno utilizzato provenivano dal Transiting Exoplanet Survey Satellite, un telescopio spaziale normalmente utilizzato per cercare pianeti al di fuori del nostro sistema solare.

I ricercatori hanno testato il loro metodo cercando con successo i segnali luminosi di tre oggetti transnettuniani (TNO) noti

Successivamente, hanno condotto una ricerca alla cieca di due settori nel sistema solare esterno che potrebbero rivelare il Pianeta Nove o qualsiasi oggetto della fascia di Kuiper precedentemente non rilevato e rilevato 17 potenziali oggetti.

“Se anche uno solo di questi oggetti candidati fosse reale, ci aiuterebbe a comprendere le dinamiche del sistema solare esterno e le probabili proprietà del Pianeta Nove”, ha detto Rice. “Sono nuove informazioni convincenti.”

Attualmente sta lavorando con l’ex postdoc di Yale Songhu Wang, un membro della facoltà dell’Università dell’Indiana, per controllare i 17 candidati che utilizzano telescopi a terra.

Laughlin ha detto che l’uso riuscito dello spostamento e dell’accatastamento su scala limitata aprirà la strada a un’indagine su scala più ampia del sistema solare esterno, che è particolarmente convincente data la possibilità di trovare un nuovo pianeta.

“Dovremmo seguire ogni indizio per trovare maggiori informazioni”, ha detto Laughlin.

La Rice ha detto che rimane “agnostica” sull’esistenza del Pianeta Nove e vuole concentrarsi sui dati. “Ma sarebbe bello se fosse là fuori”.

Il telescopio spaziale James Webb della NASA completa i test ambientali.

Come siamo messi con il JWST?

Un telescopio spaziale che ha, per ora, collezionato record di ritardi e slittamenti ma che, se andrà tutto come previsto, sarà una nuova potentissima finestra di osservazione dell’universo. La sua capacità di analizzare nello spettro dell’infrarosso, ne fa un candidato ideale per scrutare pianeti extrasolari.

La sfida è ambiziosa per diversi motivi:

  1. È un complicatissimo telescopio che dovrà essere “aperto” automaticamente in viaggio. Si dovranno dispiegare gli schermi di protezione e l’enorme specchio riflettente diviso in 3 parti formati da riflettori esagonali.
  2. La sua complessità ed il suo peso impongono test severissimi al fine di verificare la sua tolleranza alle enormi sollecitazioni che riceverà durante il lancio.
  3. Si dovrà collocare in un punto di Lagrange che si trova a 1,5 milioni di km dalla Terra.
  4. Proprio perché si troverà così distante non potrà di certo essere soccorso con interventi di manutenzione come fatto con il suo famoso predecessore Hubble. O va al primo colpo o si sono buttati miliardi di dollari dalla finestra.

Queste sono sostanzialmente le ragioni dei continui slittamenti, oltre naturalmente al COVID19.

Si va con i piedi di piombo perché a nessuno piace l’idea di un fallimento. Come diceva Kranz ai suoi collaboratori a Cape Canaveral con Apollo 13: il fallimento non è una opzione.

Se supererà indenne l’enorme sforzo durante il lancio con un Ariane 5 dalla Guyana francese il rischio fallimento diminuirà di parecchio.

Commentato e tradotto da Luigi Borghi.

Eccovi l’articolo tradotto.

https://www.nasa.gov/feature/goddard/2020/nasa-s-james-webb-space-telescope-completes-environmental-testing

https://youtu.be/QbyKJlmOQbY

Per la prima volta in assoluto, i team di test di Northrop Grumman a Redondo Beach, in California, hanno sollevato con cura il telescopio spaziale James Webb completamente assemblato per prepararlo per il trasporto alle vicine strutture di prova acustica e di vibrazione sinusoidale.

Credito immagine NASA / Chris Gunn

Con il completamento della sua ultima serie di test fondamentali, il James Webb Space Telescope della NASA è ora sopravvissuto a tutte le dure condizioni associate al lancio di un razzo nello spazio. 

I recenti test di Webb hanno convalidato che l’osservatorio completamente assemblato resisterà al rumore assordante e ai tremori e alle vibrazioni che l’osservatorio subirà durante il decollo. 

Conosciuti come test “acustici” e “sinusoidali”, la NASA ha lavorato con attenzione con i suoi partner internazionali per abbinare l’ambiente di test di Webb precisamente a ciò che Webb sperimenterà sia il giorno del lancio, sia quando opera in orbita.

Sebbene ogni componente del telescopio sia stato rigorosamente testato durante lo sviluppo, dimostrare che l’hardware di volo assemblato è in grado di passare in sicurezza attraverso un ambiente di lancio simulato è un risultato significativo per la missione. 

Completati in due strutture separate all’interno dello Space Park di Northrop Grumman a Redondo Beach, in California, questi test rappresentano gli ultimi due di Webb, in una lunga serie di test ambientali prima che Webb venga spedito nella Guyana francese per il lancio.

Il prossimo ambiente che Webb sperimenterà è lo spazio. 

“Il completamento con successo dei test ambientali del nostro osservatorio rappresenta una pietra miliare nella marcia verso il lancio. I test ambientali dimostrano la capacità di Webb di sopravvivere al viaggio del razzo nello spazio, che è la parte più violenta del suo viaggio in orbita a circa un milione di miglia dalla Terra. Il gruppo multinazionale di persone responsabili dell’esecuzione del test acustico e di vibrazione è composto da un team eccezionale e dedicato di persone tipiche dell’intero team Webb “, ha affermato Bill Ochs, project manager Webb per il NASA Goddard Space Flight Center di Greenbelt , Maryland.

I test sono iniziati incapsulando dapprima l’intero telescopio in una camera bianca mobile costruita per proteggerlo dal mondo esterno. I tecnici lo hanno quindi guidato con attenzione verso una vicina camera di prova acustica dove è stato intenzionalmente fatto saltare da livelli di pressione sonora superiori a 140 decibel, con uno spettro sintonizzato sulla firma specifica del razzo Ariane 5 che viaggerà nello spazio. Durante i test sono stati attentamente osservati e registrati quasi 600 singoli canali di dati di movimento. I tipici test acustici e di vibrazione misurano circa 100 canali di dati, ma le dimensioni e la forma complesse dell’osservatorio richiedono misurazioni notevolmente maggiori per garantire il successo. I dati sono stati quindi analizzati a fondo e contrassegnati come un completo successo.    

Dopo aver completato con successo i suoi test acustici finali, Webb è stato nuovamente imballato e trasportato in una struttura separata per simulare le vibrazioni a bassa frequenza che si verificano durante il decollo. Mentre all’interno Webb è stato posizionato su un tavolo shaker specializzato in grado di accelerazioni verticali e orizzontali precise. Laddove il test acustico simula le dinamiche ad alta frequenza del lancio, il test delle vibrazioni copre le frequenze più basse sperimentate. Con la combinazione dei due viene considerato l’intero ambiente meccanico che Webb sperimenterà durante il lancio.

Per spostare in sicurezza il James Webb Space Telescope tra le strutture di test, gli ingegneri lo racchiudono in una speciale camera bianca mobile spesso denominata a conchiglia. La scansione tra gli edifici può richiedere ore e richiede l’innalzamento delle linee telefoniche per consentire a Webb di passare sotto. I recenti test di Webb hanno convalidato che l’osservatorio completamente assemblato resisterà al rumore assordante e alle scosse, ai sonagli e alle vibrazioni stridenti che l’osservatorio subirà durante il decollo. Conosciuti come test “acustici” e “sinusoidali”, la NASA ha lavorato con attenzione con i suoi partner internazionali per abbinare l’ambiente di test di Webb precisamente a ciò che Webb sperimenterà sia il giorno del lancio, sia quando opera in orbita.

Crediti: Goddard Space Flight Center della NASA

“Il team di test è un consorzio internazionale di esperti di dinamiche strutturali che sono gli ingegneri principali per ogni pezzo di hardware dell’osservatorio. I membri del team si trovano negli Stati Uniti e in Europa, in 9 fusi orari! Sono estremamente impegnati a supportare i test a tutte le ore e tutti i giorni per fornire la loro esperienza “, ha affermato Sandra Irish, Webb Mechanical Systems Structures Engineer Lead per il Goddard Space Flight Center della NASA a Greenbelt, nel Maryland. “Grazie alla dedizione del team, al duro lavoro e alla pura eccitazione di far parte di questo complesso test, è stato un completo successo! Conosco queste persone da molti anni ed è stato un onore lavorare con ognuna di loro “. 

Webb è ora programmato per passare all’ultima estensione completa del suo iconico specchio primario e tettuccio parasole, seguita da una valutazione completa del sistema prima di essere incapsulato in un container di spedizione specializzato per il trasporto in Sud America. 

La distribuzione dell’osservatorio dopo aver sperimentato un ambiente di lancio simulato è il modo migliore per replicare la vera serie di eventi che l’osservatorio sperimenterà durante il lancio e durante l’esecuzione della sua complessa sequenza di distribuzione nello spazio. L’analisi iniziale suggerisce che l’osservatorio ha superato con successo i test acustici e di vibrazione a livello di osservatorio, ma la verifica completa dell’idoneità al volo avverrà dopo che Webb avrà completato con successo i test finali di dispiegamento.

Ingegneri e tecnici continuano a seguire procedure di sicurezza personale aumentate a causa della situazione COVID-19, che sta causando un impatto significativo e interruzioni a livello globale. Il team ha ripreso le operazioni quasi complete e si sta ora preparando per la fase finale dei test prima della spedizione al sito di lancio.

Il James Webb Space Telescope è il telescopio per le scienze spaziali più grande, potente e complesso mai costruito al mondo. Oltre alla scienza rivoluzionaria che ci si aspetta dopo il lancio, Webb ha richiesto un miglioramento dell’infrastruttura di test e dei processi coinvolti nella convalida di veicoli spaziali complessi di grandi dimensioni per una vita nello spazio. Varie strutture in tutto il paese hanno dovuto essere ampliate e aggiornate per testare e preparare con sicurezza una macchina grande quanto Webb per il decollo. Le lezioni apprese dal precedente sviluppo di telescopi spaziali sono state investite in Webb, e i futuri telescopi spaziali saranno costruiti sulla stessa conoscenza collettiva. Migliaia di scienziati, ingegneri e tecnici hanno contribuito a creare, testare e integrare Webb. 

Hanno partecipato in totale, 258 aziende, agenzie e università, anche italiane: 142 dagli Stati Uniti, 104 da 12 nazioni europee e 12 dal Canada.

Webb è il prossimo grande osservatorio di scienze spaziali della NASA, che aiuterà a risolvere i misteri del nostro sistema solare, guardando oltre a mondi lontani attorno ad altre stelle e sondando le strutture e le origini mistificanti del nostro universo. Webb è un programma internazionale guidato dalla NASA, insieme ai suoi partner ESA (European Space Agency) e Canadian Space Agency.

Per ulteriori informazioni su Webb, visitare: https://www.nasa.gov/webb

Ulteriori risorse video sono disponibili qui: https://svs.gsfc.nasa.gov/Gallery/JWST.html

A cura del Goddard Space Flight Center della NASA di  Thaddeus Cesari.

Altri link utili: www.nasa.gov/artemis

C’è vita su Venere?

L’uomo è un essere molto curioso ed abbiamo da sempre esplorato i confini conosciuti.

Grazie a Galileo e Copernico abbiamo capito che il nostro pianeta è uno dei tanti che gira intorno al sole e da allora non abbiamo mai smesso di osservare i pianeti intorno a noi, ma oggi è una giornata storica, perché è stata osservata fosfina nella atmosfera di Venere.

La fosfina (PH3) esiste sulla Terra solo attraverso processi biologici (microbi specifici in ambienti privi di ossigeno possono generarla) o attraverso processi industriali in cui è prodotta dalle persone.

Fosfina - Wikipedia

Nelle comunità di astronomia / astrobiologia non ci sono altre fonti conosciute di fosfina se non in condizioni di temperature molto estreme come quella nelle calde e dense atmosfere interne di Giove e Saturno (dove si vede la fosfina) o nelle stelle. La fosfina, una volta creata, viene distrutta nel tempo da vari processi, come reazioni con ossigeno e idrogeno o radiazione ultravioletta. Ciò significa che senza una fonte che generi fosfina, dovrebbe scomparire lentamente nel tempo e non essere rilevabile. Vedere la fosfina nell’atmosfera di un pianeta roccioso temperato è quindi considerato molto probabilmente una firma biologica.

Immagine per post
Venere

Supponendo che le misurazioni siano reali e accurate e che la fosfina esista nell’atmosfera di Venere in quantità significative, allora ci sono solo due possibili spiegazioni ed entrambe sono un passo avanti molto eccitante:
1- La fonte della fosfina è una sorta di processo fisico o chimico che non è previsto su pianeti rocciosi come Venere. Noi umani siamo infinitamente ignoranti, quindi dobbiamo prima indagare per escludere tutte le altre fonti!!!
2- Viene creata dalla vita (probabili microbi che galleggiano nella “zona abitabile” dell’atmosfera) almeno alla stessa velocità con cui può essere distrutta dai processi naturali.

Trovare la vita su un altro pianeta nel nostro sistema solare è molto significativo e porta ad altre due possibilità stimolanti:

1- La vita si è evoluta in modo indipendente su più pianeti

Se la vita si è evoluta in modo indipendente proprio sotto il nostro naso sul pianeta più vicino a noi, un pianeta che peraltro pensavamo fosse inospitale a causa della sua calda atmosfera acida, allora è assolutamente possibile che la vita sia praticamente ovunque nell’universo! La vita allora è abbondante. Probabilmente la troveremo presto su altri pianeti del sistema solare e vedremo bio firme simili nelle atmosfere dei pianeti attorno ad altre stelle. Se la vita è abbondante, è molto probabile che la vita esista da milioni di anni su milioni di pianeti, e diventa quasi una certezza statistica che la vita da qualche parte dovrebbe essersi evoluta in organismi più complessi e quindi in vita intelligente. Non siamo soli!

2- La vita su Venere e sulla Terra hanno la stessa fonte

Ciò significherebbe che la vita si è prima evoluta da qualche parte, e poi in qualche modo è saltata su altri pianeti. Acquisterebbe maggior credito la tesi della panspermia.
La panspermia (Greco: πανσπερμία da πᾶς, πᾶσα, πᾶν (pas, pasa, pan) “tutto” e σπέρμα (sperma) “seme”) è una ipotesi che suggerisce che i semi della vita (in senso ovviamente figurato) siano sparsi per l’Universo, e che la vita sulla Terra sia iniziata con l’arrivo di detti semi e il loro sviluppo.

In ogni caso si tratta di una notizia molto eccitante, che porterà ad una delle conseguenze riassunte qui sotto:

Immagine per post

Commentato e riassunto da Leonardo Avella.

Fonti:

Medium.com

https://medium.com/@jamesmason_97462/phosphine-in-the-atmosphere-of-venus-what-does-it-mean-b0625e0a992e

Eso.org

https://www.eso.org/public/italy/news/eso2015/

La stella più veloce della Via Lattea

Una stella che si sposta alla velocità di 24.000 chilometri al secondo e orbita vicinissimo al buco nero supermassiccio Sagittarius A*, presente al centro della galassia, ha battuto ogni record.

Commento di Luigi Borghi.

S4714

Chiamata S4714, è stata individuata da un gruppo di astrofisici dell’Università di Colonia, in Germania, che ne hanno descritto le caratteristiche in uno studio pubblicato sulle pagine della rivista di settore The Astrophysical Journal.

Pur procedendo a una velocità pari all’8% di quella della luce, la stella S4714 impiega 12 anni per completare il suo percorso attorno al buco nero. Durante il suo “viaggio” segue un’orbita piuttosto eccentrica, che ha la forma di un’ellisse molto allungata. Quando raggiunge il punto più vicino a Sagittarius A*, arriva a “sfiorarlo” da una distanza di 1,9 miliardi di chilometri. Durante questo avvicinamento, la stella incrementa la sua velocità fino a 24.000 chilometri al secondo, per poi rallentare quando si allontana.

Assieme a lei “corrono” anche altri quattro astri (S4711, S4712, S4713 e S4715), tra i più vicini mai osservati in prossimità del buco nero: battono persino la stella S2, che per anni ha detenuto il primato con una distanza minima di 18 miliardi di chilometri da Sagittarius A* e una velocità pari al 3% di quella della luce.

Una possibile conferma dell’esistenza delle “squeezar” (stelle “strizzate”, in inglese “squeezed”, dalla forza di gravità del buco nero supermassiccio).

La scoperta di queste stelle permette di suppore che il numero di astri presenti nelle vicinanze dei buchi neri sia maggiore di quanto ipotizzato finora. Nel 2003, alcuni scienziati avevano teorizzato l’esistenza delle “squeezar”, delle stelle così vicine a un buco nero da essere strizzate dalla sua forza di marea. Un’eventuale conferma di questa ipotesi potrebbe aiutare la comunità scientifica ad approfondire lo studio delle proprietà dei buchi neri e a testare vari aspetti della teoria della relatività.

Ad ogni  passaggio, le  forze di marea  convertono  una  frazione  dell’energia  orbitale   stretta della stella in  calore. Questo, in primo luogo, fa brillare la stella  più brillantemente di quanto farebbe normalmente e,  in secondo luogo,  contribuisce  al  decadimento orbitale della stella. In altre parole, le “squeezar” sono stelle morte  in orbita.

Commentato da Luigi Borghi

Eccovi le fonti:

https://www.sciencealert.com/the-fastest-star-in-the-galaxy-zooms-as-high-as-8-percent-of-the-speed-of-light

https://www.newscientist.com/article/2251894-the-fastest-star-in-our-galaxy-moves-at-8-per-cent-the-speed-of-light/?utm_source=NSDAY&utm_campaign=3760970948-NSDAY_170820&utm_medium=email&utm_term=0_1254aaab7a-3760970948-374105883